“MI FACCIO UN TATUAGGIO” CORPI TRA ARTE E DISAGIO

di Giovanna Sciacchitano da Avvenire Noi in famiglia 10 aprile 2022

Ascoltare le richieste dei figli adolescenti serve per capire se si tratta di un bisogno inespresso di comunicazione o voglia di trasgressione.

In Italia circa sette milioni di persone sono tatuate, ma è una cifra sottostimata anche perché negli ultimi anni l’età del primo tatuaggio si sta abbassando. Basti pensare che tra i minorenni la percentuale dei tatuati si aggira intorno al 7-8%.

Sono numerosi i ragazzi che mordono il freno e chiedono ai genitori di poter fare un tatuaggio o un piercing prima dei fatidici 18 anni. Una moda e un desiderio che ha radici arcaiche, che a volte mette in crisi mamme e papà, sospettosi verso questa pratica quando si è così giovani. Si è parlato di questo tema nel corso di un incontro organizzato dalla Fondazione Ambrosianeum e Matarelli dal titolo ‘Il tatuaggio nella cultura contemporanea – un fenomeno di massa per definire l’identità personale’. In una società liquida come la nostra possiamo leggere i segni sul corpo come un tentativo di tracciare una propria identità, di esprimere il vero sè. Alessandra Marcazzan, psicologa e psicoterapeuta dell’Istituto Minotauro di Milano, autrice qualche anno fa con Gustavo Pietropolli Charmet del libro Piercing e tatuaggio. Manipolazione del corpo in adolescenza (Franco Angeli) ha affrontato gli aspetti delle manipolazioni del corpo in adolescenza che spesso preoccupano i genitori.

«Il corpo è il nostro biglietto da visita e la scelta di tatuarsi nei giovanissimi può essere una pratica per differenziarsi – ha spiegato l’esperta –. La funzione del disegno può essere quella di ‘trattenere’ un ricordo importante, oppure di rendersi unici e attraenti, in alcuni casi può rappresentare una sorta di autocura per elaborare conflitti o persino aspetti traumatici. Accettare che un figlio voglia tatuarsi può essere difficile per i genitori perché è un gesto che ‘rompe’ simbolicamente il legame con l’infanzia, un tempo in cui il corpo del bambino è stato forse fin troppo idealizzato e protetto. I corpi dei più piccoli sono oggetto di un forte investimento da parte dei genitori, per questo sono molto curati, a volte fino all’eccesso. Ad esempio, vengono prese molte cautele in più rispetto al passato perché i figli non si facciano male giocando o facendo sport, come a voler preservare a tutti i costi l’integrità del corpo e attraverso di essa il legame con il figlio o la figlia. Ciò implica il fatto – osserva ancora Marcazzan – che per i ragazzi oggi sia più difficile ‘usarsi’ e quindi differenziarsi; per questo pratiche come il tatuaggio che permettono di ‘personalizzare’ il corpo, di sentirlo più proprio, affascinano gli adolescenti».

Nonostante qualche difficoltà, oggi i genitori sono più disponibili ad accettare il tatuaggio e i ragazzi spesso contrattano con loro l’età del primo ‘disegno corporeo’. Per i minorenni occorre, infatti, il consenso informato dei genitori, che spesso consigliano ai figli di aspettare la maggiore età di rifletterci bene su. «Di solito questa richiesta non nasce dal nulla – spiega la psicologa –. Ecco perché è molto importante la comunicazione fra genitori e figli, soprattutto quando le richieste degli adolescenti sono espressione di parti molto personali e profonde che non sempre collimano con l’immagine e la rappresentazione che di loro hanno i genitori. Spesso i ragazzi che scelgono di comunicare con il corpo hanno meno facilità a esprimere attraverso il linguaggio bisogni e motivazioni intime».

Secondo la psicoterapeuta, i genitori possono raccogliere gli elementi per capire se il desiderio del tatuaggio ha una connotazione comunicativa,volta all’immagine, alla ricerca della bellezza, alla cura di sé o ha anche un intento trasgressivo, oppositivo, con la volontà di infrangere le regole. Se il corpo è amato o maltrattato. Se si tratta di una richiesta impulsiva, magari su suggestione di qualcosa che hanno visto fare ad altri o dettata dalla moda del momento, oppure se dietro c’è un bisogno che cova da tempo nel profondo. «Darsi del tempo è utile per genitori e figli in modo che questo desiderio possa sedimentare – sottolinea ancora l’esperta –. Trovo utile che si concordi con i genitori la scelta del luogo, in modo che sia sicuro, riflettere bene sul disegno e curarne la scelta. Si può considerare il tatuaggio una forma di comunicazione profonda, non verbale, ma che comunque ha uno spessore e che va inserita nel suo contesto. Oggi gli adulti sono più propensi a riconoscere il valore del tatuaggio, a non considerarlo solo una moda, o una modalità di imbruttire il corpo, ma l’espressione di un bisogno di simbolizzare e di iscrivere nel corpo pratiche culturali».

Se incidere la propria pelle risponde ad una esigenza espressiva, è comunque comprensibile l’atteggiamento di genitori preoccupati nei confronti di una pratica che secondo loro non aggiunge valore alla persona. «Non credo che il negare il consenso o la frustrazione siano mortificanti in sé, perché anche il rifiuto si inscrive nella dialettica tra genitori e figli – sottolinea Marcazzan – . È essenziale, però, tenere aperto il dialogo, un terreno su cui si possono scontrare anche posizioni differenti. Quindi chiedere di rimandare alla maggiore età il tatuaggio è legittimo, purché non comporti la fine della comunicazione e del dialogo. Si tratta di un limite con cui i figli devono confrontarsi e in molte situazioni se lo aspettano. Il rifiuto motivato può diventare una sfida, l’occasione per chiarire reciprocamente le posizioni, a condizione di non denigrare o disprezzare. Si può presentare ai figli il proprio punto di vista, spiegando che in quanto responsabili non ci si sente di autorizzare quella scelta».

Attenzione, però, dialettica non vuol dire rinunciare al confronto. «Oggi si pensa che ascoltare i propri figli coincida un po’ con l’allinearsi completamente sulle loro posizioni – considera la psicologa –. Questo non è sempre un bene perché l’adolescente per crescere deve differenziarsi rispetto all’esterno e i genitori devono essere capaci di sostenere la differenziazione anche quando questo implica qualche grado di conflitto. Conflitto che non è necessariamente violento, ma a volte richiede di sostenere visioni diverse e aiutarsi a chiarirle e a specificarle. Questo è un percorso evolutivo, di crescita. È il processo di soggettivazione, un ingrediente del farsi individuo autonomo. Può succedere, invece, che l’ascolto diventi identificazione con la posizione del figlio, che in questo caso viene ricompreso nel grande abbraccio genitoriale che tutto legittima, ma che anche tutto confonde».

In conclusione, è necessario arrivare a compromessi che non espongano il figlio ai rischi di pratiche effettuate in segreto o di nascosto. Con rischi anche dal punto di vista sanitario. Bisogna, poi, comprendere che, se la richiesta è davvero sentita profondamente, il tempo può essere utile per costruire con i genitori una modalità accettabile.

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