Vacanza. Vacanze. Vuoti. Assenze. Da chi? Da cosa? Il concetto di vacanza, prima ancora di indicare dove andremo ‘a farle’, dice che ci allontaneremo e che c’è qualcosa che non faremo più. Quando pensiamo alle vacanze, in prima battuta ci vengono in mente tutte quelle persone e tutti quegli impegni dai quali ci allontaneremo perché nella nostra vita normale costituiscono un fastidio. Colleghi di lavoro, certo. Magari anche amici e vicini di casa. Forse, ahimè, anche mogli, mariti, compagni e compagne, figli, parenti. E, perché no, Dio.
Quanti cristiani, quando scelgono l’isola deserta, la valle nascosta, la campagna isolata, quando pensano a dove trascorrere i giorni della vacanza, si chiedono se potranno andare a Messa? Pochi. Perché l’estate pare il tempo perfetto per dimenticare tutto, visto che l’idea di andare in vacanza reca con sé la necessità di distaccarsi dai consueti pensieri prendendo le distanze da tutto, proprio tutto, Dio compreso, visto che nella nostra vita durante l’anno, l’appuntamento con Lui, quando c’è, è un posto dell’agenda come gli altri. Se, quindi, la vacanza è liberarsi dall’agenda, perché non liberarsi anche da Dio?
Proprio dalle colonne di questo giornale, un paio d’anni fa avevo lanciato la provocazione di tornare a celebrare, in vacanza, la liturgia delle ore usando i breviari stampati, quelli con la carta. La provocazione di quest’anno invece è quella di tenere, durante le vacanze, un piccolo diario. Non chiederò a chi ha deciso di stare due settimane sull’isolotto greco, di impazzire per capire dove può andare a Messa e, scoperto che esiste solo quella ortodossa, tormentare il proprio parroco chiedendogli ‘se vale lo stesso’: avete staccato il vostro biglietto e ora partite per il viaggio, ma portate con voi un taccuino. Un piccolo blocknotes dove, tenendo in mano carta e penna, annotare tutto ciò che ci passa per la testa: le sensazioni, le emozioni, la rabbia, lo sconforto, tutto ciò che abbiamo in quella parte di noi con la quale non siamo mai linkati. Colleghiamoci con essa attraverso carta e penna. Usiamo un diario per intercettare i nostri ‘sogni oltre ai like’, per arrivare ai ‘bisogni’: a quelli cioè che sono i nostri sogni identitari, veri e propri sogni che valgono doppio. Per questo abbiamo bisogno d’imparare a scrivere con carta e penna senza ‘polliciare’ il nostro touchscreen come facciamo continuamente durante l’anno (e come continueremo a fare durante le vacanze).
La scrittura con carta e penna è terapeutica. Non dico di camminare a piedi nudi per i sentieri di montagna, ma per lo meno proviamo a farlo senza auricolari nelle orecchie. Distinguiamo i rumori, respiriamo con il naso e sentiamo i profumi. E poi scriviamo. I whatsapp sono immateriali: sulla carta, invece, le parole hanno uno spazio che è solo il loro. Siamo in vacanza. Abbiamo lasciato a casa lavoro, amici, Dio ma non erano loro a darci fastidio. Era di ostacolo alla nostra vita felice la vacanza da noi stessi: da quella parte di noi che quando cercava di entrare in contatto con noi, trovava solo vuoto e ‘vacanza’ perché eravamo sempre online con tutto il resto tranne che con quel resto di noi che è quello che importa.
Carta e penna, come il breviario fatto di carta, possono liberare in noi il ‘tatto’. Quello della prima carezza, quello della prima volta. Quello di quando eravamo bambini e aprivamo un regalo. Scrivere a mano su un diario di carta le nostre emozioni libererà dentro di noi quello che c’è già, ma è scappato in fondo a noi, da qualche parte, e si è timidamente nascosto. È lì e aspetta di essere scoperto, custodito e coltivato. La vacanza, grazie a carta e penna, sarà così il tempo della presenza non quello dell’assenza. E allora la vacanza come vita senza tutto e senza tutti, senza Dio, come mero ‘laboratorio dell’assenza’ potrebbe diventare finalmente ‘laboratorio di presenza’. Spazio a noi stessi e a ciò che conta. A Dio perfino. Come un’udienza data a una domanda lungamente repressa.
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