In Italia, ma non solo, esistono centinaia di santuari grandi e piccoli, più o meno noti, sorti per celebrare un’apparizione, un santo, un qualche evento miracoloso. Non so quanti li conoscano, e quanti ne abbiamo visitato almeno uno nella loro vita. Spesso, in questi luoghi, c’è una parte – può essere una parete, o una cappella, o una sala a parte – destinata ai cosiddetti ex voto, generalmente oggetti, o disegni, o scritti che parlano di una grazia ricevuta. Ancora una volta non so quanti ci abbiano fatto veramente attenzione, so invece che tante volte mi è capitato di vedere altri visitatori, come me, scorrere frettolosamente, spesso con un sorrisetto al lato della bocca, quelle parate di ex voto. Quasi fossero retaggio d’altri tempi, di un passato che oggi non è più, quando invece quegli oggetti, quei disegni, quegli scritti sono e restano per sempre la testimonianza di una fede semplice, spontanea, senza tante sovrastrutture, sempre uguale da secoli.
Lo stesso succede anche con la cosiddetta preghiera “vocale”, che per tanti, persone semplici, o anziani, non è un recitare a pappagallo formule antiche, sempre le stesse e senza intonazione, ma preghiera vera. Papa Francesco è tornato a ricordarcelo due mercoledì fa, ammonendo sul fatto che «tutti dovremmo avere l’umiltà di certi anziani che, in chiesa, forse perché ormai il loro udito non è più fine, recitano a mezza voce le preghiere che hanno imparato da bambini, riempiendo la navata di bisbigli». Una preghiera che «non disturba il silenzio, ma testimonia la fedeltà al dovere dell’orazione, praticata per tutta una vita, senza venire mai meno. Questi oranti dalla preghiera umile sono spesso i grandi intercessori delle parrocchie: sono le querce che di anno in anno allargano le fronde, per offrire ombra al maggior numero di persone. Solo Dio sa quando e quanto il loro cuore fosse unito a quelle preghiere recitate: sicuramente anche queste persone hanno dovuto affrontare notti e momenti di vuoto. Però alla preghiera vocale si può restare sempre fedeli. È come un’àncora, aggrapparsi alla corda per restare lì fedeli, passi quel che passi. Abbiamo tutti da imparare dalla costanza di quel pellegrino russo, di cui parla una celebre opera di spiritualità, il quale ha appreso l’arte della preghiera ripetendo per infinite volte la stessa invocazione: “Gesù, Cristo, Figlio di Dio, Signore, abbi pietà di noi, peccatori!”. Ripeteva solo questo. Se arriveranno grazie nella sua vita, se l’orazione si farà un giorno caldissima tanto da percepire la presenza del Regno qui in mezzo a noi, se il suo sguardo si trasformerà fino ad essere come quello di un bambino, è perché ha insistito nella recita di una semplice giaculatoria cristiana. Alla fine, essa diventa parte del suo respiro. È bella la storia del pellegrino russo, è un libro a portata di mano di tutti, vi consiglio di leggerlo, vi aiuterà a capire cosa è la preghiera vocale. Dunque, non dobbiamo disprezzare la preghiera vocale: “Cose per i bambini, per la gente ignorante, io sto cercando la preghiera mentale, la meditazione, il vuoto interiore perché venga Dio”… per favore. Non cadere nella superbia di disprezzare la preghiera vocale, la preghiera dei semplici, quella che ci ha insegnato Gesù: “Padre nostro, che sei nei cieli…”».
Il libro di cui Bergoglio ha suggerito la lettera si intitola “Racconti di un pellegrino russo”, scritto a metà dell’Ottocento da Nemytov, probabilmente un contadino russo del quale non si sa nulla o quasi. Il libro non ha molte pagine, e si legge facilmente. Davvero varrebbe la pena leggerlo.
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