Un essere umano che riceve un visitatore a casa sua gli offrirà senz’altro un letto per dormire; se ritorna, gli indicherà una poltrona; se torna ancora, avrà diritto a una panca; e se apparirà nuovamente, l’ospite gli dirà: però ora basta. Con Dio è diverso: più lo disturbiamo più egli ne gioisce
Rabbì Zerà, in Elie Wiesel Maestri e leggende del Talmud
«Noemi partì dunque dal luogo dove aveva abitato, e con lei c’erano le due nuore, e si misero in cammino per tornare nel paese di Giuda. Noemi disse alle due nuore: “Andate, tornate ciascuna a casa di vostra madre; YHWH vi usi misericordia, come voi avete fatto con quelli che sono morti e con me. Il Signore vi conceda di trovare riposo ciascuna nella casa di suo marito”. E le baciò». (Rt 1,7-9). Le tre vedove partono. Mentre sono in cammino il primo colpo di scena: Noemi chiede alle sue due nuore di tornare a casa. Sono nuore leali e buone, che avevano usato con lei amore misericordioso (hesed). Siamo dentro un rapporto di amore e di reciprocità. Ma una volta partite Noemi cambia i piani. Non erano più a Moab e non ancora a Betlemme: sono a metà strada, in mezzo al guado. Questa terra di mezzo tra Moab e Betlemme è una terra di donne.
Perché Noemi non ha parlato alle nuore prima di partire? Il libro non ce lo dice. Forse l’autore ha voluto portare le tre donne nel “deserto” perché in quel non-luogo c’erano le condizioni per una scelta più libera, via dallo sguardo delle famiglie d’origine, dal peso degli dèi di casa, dai maschi attorno. Lungo la strada le due nuore-vedove possono scegliere di continuare o tornare indietro. Lì lo spazio è superiore al tempo, perché mentre il tempo continua a scorrere nel suo asse di sempre e di tutti, quelle donne stanno segnando l’altro asse della loro vita con la libertà di andare o tornare. In quel mondo la poca e piccola libertà delle donne andava creata fuori dalla casa di ieri e prima di arrivare in quella di domani. La loro libertà era transitoria (in transito), provvisoria e temporanea, una libertà fragile che la Bibbia vede, custodisce e ci dona. Le scelte di Noemi, Rut e Orpa sono scelte di donne libere, almeno in quel tratto di strada, di vita, di libro – e se una persona è veramente libera anche in un solo tratto lo è sempre.
Noemi bacia le sue nuore. I baci nella Bibbia sono sempre importanti, ma qualche volta lo sono di più. Come in questo bacio di addio, salato dalle lacrime – sono sempre meravigliosi i baci di saluto tra donne che si vogliono bene, hanno il sapore e l’intensità del paradiso. Le nuore non si fanno convincere dalle parole di Noemi: «No, torneremo con te al tuo popolo» (1,10). Noemi insiste con nuovi argomenti: «Tornate indietro, figlie mie! Perché dovreste venire con me? Ho forse ancora in grembo figli che potrebbero diventare vostri mariti? Tornate indietro, figlie mie, andate! Io sono troppo vecchia per risposarmi. Se anche pensassi di avere una speranza, prendessi marito questa notte e generassi pure dei figli, vorreste voi aspettare che crescano e rinuncereste per questo a maritarvi? No, figlie mie; io sono molto più amareggiata di voi, poiché la mano di YHWH si è rivolta contro di me”» (1,11-13). Non sappiamo perché Noemi è così decisa a voler tornare da sola. Gli interpreti hanno dato molte versioni, inclusa la paura di arrivare a Betlemme con due donne vedove moabite, o il suo sentirsi fuori dalla benevolenza di Dio (“la mano di Dio…”). Restiamo comunque colpiti dall’onestà di quella anziana donna. Ed ecco il secondo movimento: «Di nuovo esse scoppiarono a piangere. Orpa si accomiatò con un bacio da sua suocera, Rut invece si attaccò a lei» (1,14). Questa volta le due nuore agiscono diversamente: Orpa torna a casa, Rut disobbedisce e resta. Noemi insiste: «Ecco, tua cognata è tornata dalla sua gente e dal suo dio; torna indietro anche tu, come tua cognata» (1,15).
Noemi dice le parole che doveva dire, perché sono le parole dell’amore adulto. Espone tutte le sue buone ragioni, e noi la capiamo. Il comportamento di Orpa è poi quello normale in quella cultura e che il lettore si attende. Chi trasgredisce è Rut. Orpa infatti non fa altro che obbedire alle parole di Noemi. Diversamente da alcune tradizioni che leggono nel suo nome la parola “nuca”, e quindi il dare le spalle a Noemi (nel Midrash Ruth Rabbah nella notte in cui Orpa lascia Noemi viene violentata da cento uomini e un cane, e da quello stupro nascerà Golia), l’autore non pronuncia né suggerisce alcun giudizio negativo nei confronti di Orpa – il libro di Rut è il libro della benevolenza degli sguardi. Era partita con Noemi e Rut, poi di fronte alle parole della suocera fa quello che doveva fare. Bacia Noemi due volte, piange due volte. Le vuole bene, avrà voluto bene anche a Rut, ma riprende il flusso ordinario e ordinato della vita. Non sente una vocazione, torna a casa, esce per sempre dal libro, e noi la benediciamo.
Ed è a questo punto che Rut prende per la prima volta la parola, in uno dei brani poetici e spirituali più belli di tutta la Bibbia, che va letto tutto d’un fiato: «Non insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza di te, perché dove andrai tu, andrò anch’io, e dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anch’io e lì sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo male e altro ancora, se altra cosa, che non sia la morte, mi separerà da te» (1,16-17). Stupendo! Un canto al valore infinito dei legami umani, delle persone, del valore assoluto di una sola persona.
Ma perché Rut vuol seguire Noemi e non ascolta il suo consiglio? Rut trasgredisce, ogni vocazione è trasgressione. Nelle sue parole c’è un capitolo della grammatica delle “vocazioni-per-sempre”. Rut in Noemi non vede solo una buona suocera o una carissima amica. Ci vede anche il proprio destino, il suo posto al mondo, sente pronunciare il proprio nome. Queste parole di Rut sono più grandi del contesto del suo libro. Sono una declinazione orizzontale e antropologica dell’Alleanza biblica.
Innanzitutto vi troviamo il senso del per sempre. Solo nelle vocazioni c’è un “per sempre”, anche se un giorno ci fermiamo e torniamo a casa. E quando qualcuno sente di pronunciare per sempre, siamo dentro una vocazione, anche se non lo sa. Ecco perché questa pagina di Rut la si legge nella liturgia nuziale, ma la si potrebbe leggere anche in quella delle vocazioni religiose, persino nelle vocazioni non religiose (se fossimo abbastanza laici). Ma non sono parole semplici né romantiche. Sono un grido, dove tocchiamo il cuore del dramma, dei rischi, del paradosso delle vocazioni. Un passo che andrebbe accostato a poche parole di Giobbe (cap. 1) o di Geremia (cap. 20). Se cancelliamo questa dimensione tragica, facciamo di questo grido e delle vocazioni un pensierino sentimentale e banale, e lo tradiamo.
C’è poi una sequela. Le vocazioni sono prima di tutto una faccenda di piedi. Dopo aver sentito una voce, ci si mette subito a camminare con qualcuno, dietro a qualcuno, attaccato (davàk) a qualcuno, a una o più persone concrete. Ci si attacca come la lingua di Ezechiele si attaccò al palato dopo aver perso sua moglie, la “luce dei suoi occhi” (Ez 24).
Si resta fedeli alla vocazione finché non si smette di camminare, anche quando col passare del tempo non sappiamo più chi è colui che stiamo seguendo. Le vocazioni sono sequele di persone. Ecco perché esiste una grande prossimità tra le vocazioni matrimoniali e quelle religiose. Gli uomini e le donne hanno imparato a seguire soltanto Dio guardando persone che seguivano soltanto persone, soltanto una moglie o un marito; e lì lo reimpariamo ogni giorno. Perché le sequele non sono mai astratte – se c’è un luogo dove la realtà è più grande dell’idea è nelle vocazioni. Anche quando si entra in una clausura si seguono persone, ci si lega a qualcuno che è stato luogo della voce, che ha dato carni alla voce. Ci si attacca a un fondatore, a una comunità, ad amici, ad amiche, e si lega il proprio destino al loro. E quando questo manca, le esperienze vocazionali diventano nevrotiche, solitudini tristi riempite da auto-illusioni.
Quando nella mia vita ho incontrato una sequela “incollata”, le protagoniste erano quasi sempre donne. La sequela femminile ha le sue note tipiche, e una di queste è la capacità di aderire col corpo e con l’anima. Questo incollamento conosce chiaramente i suoi rischi (manipolazioni, abusi, violenze, idolatria …), ma quando è libero e consapevole è tra le cose più belle sotto il sole; è simile al farti ricoverare sano in una casa di cura solo per poter stare vicino a tua moglie.
Rut è difficile da capire, perché nella storia, antica e recente, dietro le scelte di ogni Rut non c’è sempre libertà, e le Noemi non sono sempre oneste e responsabili come quella del libro. Ma la prima e vera Rut ci ricorda una grande verità umana, che non cessa di essere grande perché è fragile. Rivediamo Rut quando una persona decide di continuare a seguirne un’altra senza altre ragioni di quella sequela. Quando capisce che la libertà che le aveva fatto lasciare tutto e tutti per non dipendere da niente e da nessuno è la stessa libertà che oggi le fa spendere per una sola persona tutta la libertà conquistata ieri. L’infinito che diventa particolare, il Logos che si fa bambino. Rut è icona della più grande gratuità perché icona della più grande libertà.
Ho incontrato alcune Noemi e qualche Rut. Ho visto il volto di Noemi in quello di una fondatrice di una comunità che, giunta al termine del suo compito si ritira, e ho rivisto Rut che la segue nella sua pensione, o se ne prende cura durante la lunga malattia. È la fedeltà che diventa più grande della “carica” e del ruolo. L’ho rivista nella fedeltà di un marito a una moglie che, per una malattia, non lo riconosceva più, ma lui continuava a conoscere e riconoscere lei, fino alla fine. Senza le Rut nelle comunità regnerebbe solo lo spietato avvicendamento delle cariche e delle funzioni, e nessuna famiglia durerebbe per sempre.
(Dedicato a Margherita e Paolo, incollati fino alla fine a un per sempre).
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