10 Ma la felicità è troppo poco

da Avvenire del 6 GIUGNO 2021 di Luigino Bruni

Perchè dunque aumento l’infelicità di essere su questa riva con la nostalgia dell’altra? Franz  Kafka 1922

Non è facile capire dove si trovi la bellezza nella Bibbia, e che cosa sia veramente. Erano belle, molto belle, Rebecca, Rachele, Giuditta, Betsabea, Ester e Tamar, forse bellissima era la Regina di Saba. “Tutta bella” è la ragazza del Cantico. Belli erano Giuseppe, Davide, bello era il bambino Mosè, molto bello era Saul, bellissimo Assalonne, il principe dalla splendida chioma: «In tutto Israele non vi era uomo bello quanto Assalonne; dalla pianta dei piedi alla cima del capo non era in lui difetto alcuno» (2 Sam 14,25). Ma insieme a questa bellezza che assomiglia alla nostra, nella Bibbia c’è anche un’altra bellezza, che ci svela una dimensione della vita, forse decisiva. Quella che ci fa chiamare bello (kalos) un pastore (Gv 10,11), lodare Maria come “tutta bella”, che ci fa vedere una bellezza diversa anche in un crocifisso che non avrebbe «bellezza per attirare i nostri sguardi» (Is 53,2).

Di Rut non si dice che fosse bella, eppure in tutto il suo libro Rut è accompagnata da una intensa bellezza. Nessuno dice che è bella, eppure tutti lo dicono. Non era più giovanissima (era vedova, sposata forse per 10 anni), eppure da oltre due millenni ci immaginiamo Rut giovane e bellissima. Se la sola bellezza vera sulla terra fosse quella di Betsabea e di Tamar saremmo condannati a vivere in un mondo con pochissimi belli e pochissima bellezza. E ad alcuni, forse molti, il mondo appare così. Ma questo non è l’unico sguardo che ci è dato. Ogni giorno, ogni minuto, persone si innamorano di altre persone perché vedono un’altra bellezza. E noi possiamo provare a guardare il mondo attraverso i miliardi di occhi degli innamorati, scoprire un altro mondo, un’altra bellezza. Chi ama vede diversamente. Vede l’amato o l’amata come una persona bellissima. Il mondo visto attraverso le fessure degli occhi amanti si capovolge, si popola di persone splendide, una più bella dell’altra, una bellezza che cambia con l’età e con le circostanze, ma che resta bellezza; fino alla fine, quando quell’ultimo sguardo avrà lo stesso scintillio degli occhi del primo incontro, forse più bello. Dio vedrà così il mondo? Vede così noi, te, me? Il suo è lo “sguardo di ultima istanza” per coloro che non hanno nessun innamorato, o nessuna madre o padre che li vede bellissimi. Quando la bellezza si appanna e scompare, dovremmo cimentarci in questo gesto diverso degli occhi.

«Rut rispose a Noemi: “Farò quanto mi dici”. Scese all’aia e fece quanto la suocera le aveva ordinato» (Rut 3,5-6). Noemi aveva orchestrato il suo piano per assicurare a sua nuora un “posto sicuro”. E così, profumata e con il vestito bello, Rut attende che finisca la festa della trebbiatura e trova il mucchio di orzo dove l’uomo si era coricato: “Boaz mangiò, bevve e con il cuore allegro andò a dormire accanto al mucchio. Allora essa venne pian piano, gli scoprì i piedi e si sdraiò” (3,6-7). Rut esegue perfettamente le istruzioni della suocera, e si sdraia nel letto di un uomo che non è suo marito, sotto la stessa coperta, dalla parte dei “piedi”. La possiamo immaginare lì, rigida e impaurita, che non chiude occhio in attesa che accada qualcosa, che spera non arrivi nessun estraneo a far saltare il piano. Con mille pensieri, tutti simili: che succederà quando si sveglia? Se mi caccia via? Mi umilia, mi offende? Sarà violento? E poi, cosa penserà di me? Le stesse domande di sempre, soprattutto quando a prendere queste iniziative sono donne, fragili, indifese, deboli.

E i minuti diventano ore, e non passano mai: «Verso mezzanotte l’uomo ebbe un brivido di freddo, si girò e vide una donna sdraiata ai suoi piedi. Domandò: “Chi sei?”» (3,8). Sull’aia, nella notte medio-orientale, fa freddo. Forse la coperta (o il mantello) era diventava corta, forse muovendosi tocca il corpo di Rut, «e Boaz iniziò a toccarle i capelli. Si disse: Gli spiriti non hanno capelli; così le chiese: Chi sei, una donna o uno spirito? Rispose: Una donna» (Midrash Rabbah, 6.1). Il dialogo continua: «Rispose: “Sono Rut, tua serva. Stendi la tua ala sopra la tua serva perché tu sei riscattatore [goèl]”» (3,9). Rut si fa riconoscere, e si presenta come “sua serva” (’amah), che era una condizione che consentiva a una donna di diventare anche concubina o una moglie – la poligamia era consentita in Israele. E gli chiede di essere il suo riscattatore-goèl e di sposarla. Le ali, usate al plurale, indicano protezione, in genere di Dio; ma quando “ala” è usata al singolare (kanap) è un’offerta di matrimonio, e “stendere l’ala sopra qualcuna” significa sposarla (Ez 16,8).

Qui Rut con questa richiesta va oltre gli obblighi di riscatto del Goèl previsti dalla Legge di Mosè, e arriva fino all’obbligo del Levirato, l’altra istituzione che prevedeva l’obbligo del cognato-parente di sposare una vedova. Una richiesta quindi impropria secondo la Legge, anche perché la donna parente di Boaz che poteva forse richiedere l’applicazione del levirato era Noemi, non Rut, che era pure straniera. Ciò che è certo è che Rut trasgredisce la Legge. E questa trasgressione ci dice qualcosa di molto importante.

Rut fa qualcosa non prevista dalla Legge degli uomini, dei maschi. Questi avevano separato e distinto il Goèl dal Levirato, avevano separato il riscatto dei beni economici dal riscatto delle persone, avevano separato la ricchezza dalla vita. E continuiamo a farlo. Rut no. Per lei tutti i beni sono relazionali. La sola vera legge che conta è quella che assicura che la vita possa continuare, che i beni non si disperdano, certo, ma che non si disperda la vita. Che arrivino nuovi figli, perché i figli nella Bibbia sono il vero paradiso, e un figlio che nasce può sempre essere il Messia. I maschi separano la roba dai rapporti umani, le donne no. Lo vediamo ancora tutti i giorni: regali costosi che sostituiscono quel tempo per parlare che non c’è mai, denaro e “alimenti” (parola tristissima) che secondo la legge dei maschi dovrebbe compensare l’incompensabile. Queste sono le parole degli avvocati, dove si va quando abbiamo ucciso le parole che dovevamo dirci e non ci siamo detti. Il riscatto dei beni senza il riscatto dei rapporti primari riscatta solo cose morte. Questo le donne lo sanno, noi maschi un po’ meno. Rut inserisce anche Noemi dentro la sua salvezza/redenzione – sposare Boaz significa dare un erede a Noemi, che non ne ha. Non riesce a concepire una salvezza che sia solo per se stessa. La felicità è troppo poco. Lo sappiamo tutti, lo impariamo tutti con il passare degli anni. Ma lo sanno soprattutto e diversamente le donne. Perché la felicità possa essere “abbastanza” (senza mai diventare tutto) dovrebbe quanto meno includere la felicità di coloro che le donne amano, che spesso pesa più della loro, fino, qualche volta, a pesare troppo – è anche questo peso eccessivo della felicità degli altri che genera la tipica sofferenza tragica delle donne sulla terra, ieri e oggi, forse sempre. Come sarebbero state le leggi e la Legge se l’avessero scritta le donne, se le avessero scritte le madri? E come l’economia, la scienza del management se fossero state le Rut a pensarle e a insegnarle? Certamente diverse, forse molto diverse.

E così, dentro questa felicità parziale, collettiva e diversa, Rut chiede di sposare un uomo adulto, probabilmente anziano, forse già sposato, più vicino all’età di Noemi che alla sua (anche il lessico ebraico che usa lo suggerisce: per il Midrash Rabbah, Boaz ha ottant’anni e da poco è rimasto vedovo (6.2)). Boaz sottolinea questa scelta di Rut: «Egli disse: “Sii benedetta dal Signore, figlia mia! Questo tuo secondo atto di fedeltà [hesed] è ancora migliore del primo, perché non sei andata in cerca di uomini giovani, poveri o ricchi che fossero”» (3,10).

Rut poteva cercare e trovare uomini giovani, magari ricchi – questo è un riconoscimento indiretto anche della bellezza e del fascino di Rut. Ma sceglie Boaz. E lo fa per fedeltà a quella prima scelta di restare “attaccata” a Noemi, per seguire una voce, una vocazione tutta umana. Sono scelte che vediamo tutti i giorni, che a volte ci appaiono strane, e che invece fanno parte del repertorio delle donne, che hanno una razionalità più vitale e affettiva, dove nel calcolo costi-benefici entrano costi e benefici diversi, a volte non fanno proprio i calcoli. Hanno un altro rapporto con il tempo, forse perché portano iscritto nel loro corpo il ritmo naturale del cosmo, e perché sanno che nove mesi valgono una vita intera, e che certi dolori sono per sempre, come lo sono certi amori. E così qualche volta sentono che vale di più amare molto una sola persona, anche per poco tempo, che amare molto molte persone per lungo tempo. E fanno la loro scelta.

«Questo tuo secondo hesed è ancora migliore del primo» – dice Boaz a Rut. Questa seconda scelta che sta facendo ora Rut è una conseguenza della sua prima scelta, quella di seguire Noemi «per sempre». Come nelle nostre vocazioni, come nella vita, dove le scelte di oggi sono atti necessari per restare fedeli ad una libertà esercitata radicalmente ieri. Le parole di Boaz ci dicono che queste seconde scelte, che ci appaiono e che in certo senso sono davvero meno libere, prevalgono sulle prime. Perché? In cosa prevalgono? In gioventù abbiamo lasciato tutto per seguire una voce. Abbiamo lasciato “moglie, campi, figli” senza avere né moglie, né campi, né figli. Poi si parte, si cammina, e un giorno adulto si incontra una donna concreta che potrebbe diventare moglie, e quindi campi, e figli. Nella prima scelta avevamo detto un “per sempre” con una libertà assoluta, perché lì era ancora tutto possibile; la seconda scelta di non “fermarsi” è meno libera della prima perché era già potenzialmente iscritta in quella, perché la prima aveva già ridotto il nostro insieme delle alternative possibili. Ma ora la scelta è concreta, la prima era astratta.

Potremmo chiamare questa seconda libertà una nuova libertà, ma la possiamo anche chiamare agape, la parola gemella dell’ebraico hesed. La seconda scelta prevale in agape. Siamo più grandi della nostra felicità e della nostra libertà, e quindi possiamo decidere di metterle in secondo piano per qualcos’altro che vale di più: la verità del nostro cuore. Sta qui la dimensione tragica delle vocazioni vere, che sono, a un tempo, la libertà massima e la massima non-libertà.
I “per sempre” detti liberamente restano per sempre, e per sempre agiscono. Tre cose rimangono. Più grande di tutte è l’agape.

l.bruni@lumsa.it​

© Riproduzione riservata

 

condividi su