“Perché non satisface a’ miei disii? / Già non attendere’ io tua dimanda, / s’io m’intuassi, come tu t’inmii”
Dante, Paradiso, IX, 79-81
Il libro di Rut è anche il libro del numero tre: i rapporti di reciprocità diretta si aprono alla reciprocità indiretta, le coppie si trascendono in terne. Il due è migliore dell’uno, ma senza l’orizzonte del tre diventa spesso malattia della relazione. Non genera, sa di chiuso, gli manca l’aria che solo il primo numero dispari e plurale può dare. Il numero tre che appare anche nella Trinità cristiana non è il numero intero che nella successione segue l’uno e il due, ma è il “numero” che dice infinito, una relazione che si apre fino ad includere tutto l’universo e di più. Perché se la distanza tra il tre e il due fosse la stessa che c’è tra l’uno e il due (o tra il tre e il quattro…), la terna sarebbe soltanto una coppia con un numero in più. Il tre che è la semplice somma di due più uno non aggiunge nulla di qualitativamente nuovo. Nella Bibbia il due non è un numero amato (Caino e Abele, Giacobbe e Esau…, fino ai due fratelli del padre misericordioso). Con il tre inizia la comunità, apre la coppia fino ad includere potenzialmente tutti. Il numero tre è il Samaritano che passa, si china sulla vittima, e fa iniziare il nuovo tempo dell’agape.
Boaz si è svegliato nel pieno della notte trascorsa a guardia del suo mucchio di orzo nell’aia di Betlemme, e ha trovato accanto Rut, infilatasi di soppiatto sotto la sua coperta, dalla parte dei piedi. Rut gli chiede di riscattarla come parente prossimo (Goèl), e anche di sposarla (Levirato). Il loro dialogo continua: «Ora, figlia mia, non temere! Tutto quello che mi chiedi io farò, perché tutti i miei concittadini sanno che sei una donna di valore» (Rut 3,11). L’autore qui fa dire a Boaz, rivolte a Rut, le stesse parole che Noemi aveva ordinato a Rut di dire a Boaz («egli ti dirà tutto quello che dovrai fare»: 3,4), e che a sua volta Rut aveva detto a Noemi: «Tutto quello che mi dirai io lo farò» (3,5). Siamo dentro un trialogo composto con la stessa frase che si ripete come un ritornello, in un gioco di generosità dove le promesse si rimandano come in uno specchio. Una pericoresi d’amore, una danza di parole dove ciascuno è soggetto e oggetto, mittente e destinatario, amante ed amato. Qui quella reciprocità indiretta che attraversa il libro di Rut diventa reciprocità di parole.
Succede anche a noi, ogni tanto, udire pronunciate per noi esattamente le stesse parole buone che noi avremmo dovuto dire a lui o lei; ed è l’esperienza del sublime, quando quelle parole diverse afferrano quel solo attimo, e lo elevano all’infinito. Forse il paradiso sarà così: ciascuno sentirà dire a se stesso tutte le parole più belle che egli ha pronunciato per gli altri, più quelle altre parole ancora più preziose che avrebbe voluto pronunciare e non c’è riuscito perché le parole sono morte in gola (e forse l’inferno sarà il suo simmetrico: ci ritorneranno tutte le parole cattive che abbiamo detto e pensato per gli altri). E ascoltandole come ritorno d’amore finalmente le capiremo, scoprendo che erano molto più grandi e belle di quanto pensassimo il giorno in cui le abbiamo pronunciate o pensate – ogni dono che torna come reciprocità ritorna moltiplicato e cambiato, non è mai quella che abbiamo donato, anche quando formalmente sembra esattamente il medesimo.
Queste parole-specchio sono sempre una sorpresa assoluta, non sono mai attese né previste, arrivano senza preavviso. Come quando, dopo un lungo discernimento e molto dolore, riusciamo a capire che le sole tre parole di resurrezione che dobbiamo dirle sono: “scusa, grazie, ti voglio bene”; apriamo la parta e siamo accolti da tre sole parole: “scusa, grazie, ti voglio bene”. Sono tanti i modi e le forme del dono, ma il dono espresso da poche parole diverse perché tutte gratuità, ne è forse la forma più alta. Perché noi amiamo molte cose, ma soprattutto amiamo le parole meravigliose pensate per noi da chi amiamo. E quando queste parole meravigliose mancano, o non ci sono più, continuiamo a mendicarle per tutta la vita. La Bibbia ci dice che almeno una parola stupenda ci attende al termine della corsa: è il nostro nome pronunciato da Dio. È anche questa la sua buona notizia, siamo anche noi il suo vangelo. Se la parola biblica non fosse stato tutto questo, e ancora di più, un giorno in quella stessa Bibbia non avremmo potuto leggere l’impensato: e la parola si è fatta carne.
Boaz continua a dire parole buone a Rut, a bene-dirla, dicendole che a Betlemme tutti sanno che lei è “una donna di valore”. Usa la stessa espressione (hayil) che troviamo per tre volte nel Libro dei proverbi (12,4;31) applicata alla donna. Nelle altre 218 volte è usata per maschi. Rut è l’unica “donna di valore” che nella Bibbia ha un nome. Boaz continua: «È vero: io ho il diritto di riscatto, ma c’è un altro che è parente più stretto di me. Passa qui la notte e domani mattina, se lui vorrà assolvere il diritto di riscatto, va bene, lo faccia; ma se non vorrà riscattarti, io ti riscatterò, per la vita del Signore! Rimani coricata fino a domattina» (13,12-13). Ecco imprevisto e l’inatteso, che sembra mandare in crisi il piano di Noemi e di Rut. C’è un altro parente più prossimo di Boaz, un altro Goèl che ha una priorità nel diritto di riscatto. Una novità molto seria, che spezza il ritmo narrativo del racconto, una vera e propria svolta.
Vedremo quali conseguenze avrà. Intanto seguiamo lo sviluppo dei pensieri e delle parole di Boaz: «Ella rimase coricata ai suoi piedi fino alla mattina e si alzò prima che una persona riesca a riconoscere un’altra. Boaz infatti pensava: “Nessuno deve sapere che questa donna è venuta nell’aia!”» (3,14). Anche in questo brano, come in altri nel libro di Rut, le cose più importanti sono quelle non dette, quelle che il lettore deve immaginare e ricostruire dal silenzio e dal taciuto. Tutta la preparazione, nella mente e nelle parole di Noemi, faceva presagire una scena di seduzione: una giovane donna si infila nel letto di un uomo solo, allegro per il vino, che usa il suo unico bene, il suo corpo attraente e profumato, per conquistare l’uomo e ottenere il riscatto dei beni e di vita. E invece il tono e la scelta dei verbi ebraici dicono altro. Parlano di un dialogo alla pari tra due persone ’di valore’, che in quel contesto scomodo e ambiguo riescono a costruire una relazione vera tra di loro, diventano più grandi dei personaggi della scena. Si parlano con le parole (e non con i corpi), parole piene di rispetto, e Boaz si prende cura di quella ospite insolita. Tutto suggerisce che l’invito a rimanere a dormire nel suo letto non nasce dal desiderio di soddisfare un appetito, ma dalla volontà di proteggerla durante la notte.
Quando riusciamo a trascendere i ruoli che la commedia della vita ci aveva assegnato, di andare oltre i linguaggi più immediati e semplici, può scattare un’altra relazionalità, anche tra uomini e donne. Non è facile, per una donna e un uomo, dialogare alla pari, con rispetto e cura, dentro un letto e sotto la stessa coperta. Ieri più di oggi. Questo la Bibbia lo sa bene, e lo sguardo lussurioso e il gesto scellerato di Davide verso Betzabea sono al centro della Bibbia, come nuovo peccato originale, come un nuovo Caino che per possedere una donna invita un fratello ai campi (di battaglia) e lì lo uccide ancora. Il gesto di Boaz riscatta, prospetticamente, il sangue che sarà versato da suo nipote Davide. Entrambi presenti nella genealogia di Gesù, per non dimenticare, per ricordare. Il libro di Rut ci dice che un altro rapporto donna-uomo non è impossibile, e che quindi sul quel mucchio d’orzo sta avvenendo qualcosa di importante.
L’antropologia biblica (Genesi 1-4) sa che il rapporto uomo-donna è segnato da una ferita. Tra di loro c’è una reciproca attrazione, fortissima, pensata e voluta dal creatore per la nostra felicità e perché arrivino i figli, una profonda e specialissima gioia che nasce dentro questo mutuo desiderio, che rende le comunità miste le più belle e felici. Ma dentro questa gioia della relazione primaria dell’umano, la Genesi ci dice che si è insinuata una malattia, che si è rotto qualcosa del disegno d’amore originario, e quella attrazione reciproca è stata abitata dal sopruso e dalla violenza. Quello sguardo d’amore ’occhi negli occhi’ dell’aurora della relazionalità uomo-donna, nella storia è diventato uno sguardo dall’alto in basso, subordinazione, un uso del corpo della donna per soddisfare voglie e bisogni dei maschi. Tutto questo la Bibbia lo sa almeno come lo sappiamo noi, ma nel raccontarci questo dialogo diverso notturno tra Rut e Boaz ci vuole dire che quel primo sguardo tra Adamo ed Eva non è perso per sempre. Quell’allineamento orizzontale degli occhi può risorgere dentro le nostre case, sui nostri mucchi di orzo, perché quella ferita originaria può essere curata, e forse un giorno cicatrizzerà per sempre. La felicità sulla terra non sarà mai piena finché tutte le donne non saranno guardate come Boaz guardò Rut, non una di meno.
Boaz non è un uomo innamorato, almeno il testo non lo suggerisce. Non è l’uomo giovane del Cantico. È un uomo adulto, forse anziano, che non tratta con tenerezza e rispetto Rut perché si è invaghito di lei. Gli uomini innamorati sono capaci di dire le parole e gli atti bellissimi che fioriscono da quella grande ed effimera stagione. Il problema sono le parole e i gesti dei maschi non innamorati. Boaz è soltanto un uomo buono. E ci basta. In questo libro dove “il maschile è un utensile minore del divino” (Erri de Luca, “Il libro di Rut”, p. 52), troviamo una pagina profetica donata da un mondo maschilista e patriarcale, che ci mostra un uomo capace di un rapporto casto, non predatorio e di vera reciprocità con una donna. Una pagina necessaria, in questa stagione dove lo sguardo delle donne sui maschi è divenuto deluso e arrabbiato, a causa dei troppi secoli nei quali il gesto di Davide ha prevalso su quello di Boaz, e continua troppe volte a prevalere. Che questa pagina allora diventi preghiera, che le parole e le azioni di Boaz diventino le nostre, e lo diventino sempre.
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