15 L’altro e vero nome del padre

da Avvenire del 11 luglio 2021 di Luigino Bruni

C’è chi non vuole che la gente semplice legga i testi sacri. Come se Cristo avesse insegnato cose così astruse da poter essere intese a malapena da tre o quattro teologi. La mia aspirazione è che leggano i Vangeli tutte le donne, che tutte leggano le lettere di san Paolo. Vorrei che il contadino ne intonasse qualche versetto spingendo l’aratro, che il tessitore ne modulasse qualche passo manovrando le sue spole
Erasmo da Rotterdam, Prefazione ai Vangeli

Da ragazzo mi colpiva molto la competenza di mia nonna Maria sulla sua casa. Una vita trascorsa lavorando dentro casa e nei campi attorno le aveva guadagnato una conoscenza unica di ogni spazio, di ogni ripostiglio, del contenuto di ogni armadio e di ogni cassetto. Chiunque cercava qualcosa in casa chiedeva alla nonna, e lei lo individuava subito nella sua mappa mentale perfetta. Lei, non nonno Domenico, che aveva invece competenze sulla cava di travertino dove lavorava, sulla vigna, sugli animali del bosco, sulle strade e sui sentieri, sui racconti della guerra; ma la competenza sugli ambienti della casa, sull’aia e sugli animali domestici erano della nonna.

A questa competenza specifica e spesso tacita sui luoghi si aggiungeva quella sul cibo, sui bambini, sui vestiti, sulle preghiere, sulle poesie, sul corpo e le sue malattie, le sue cure, la sua morte. Tutte competenze che le donne della mia famiglia stanno ancora custodendo. La divisione del lavoro uomo-donna nasceva da una divisione della conoscenza. Le competenze tipicamente femminili generavano anche una specifica economia, un governo della casa (oikos-nomos). Non sarebbe bastata l’economia dei maschi per sopravvivere, tantomeno per vivere. Senza le specifiche competenze dei luoghi, dell’aia, dei cassetti, delle relazioni primarie, dei bambini, il denaro portato a casa dagli uomini non sarebbe diventato né capitali né cibo né benvivere. Le civiltà umane non hanno mai attribuito lo stesso peso a queste due diverse oikonomie. Ma per molto tempo tra queste c’era reciprocità e non di rado anche rispetto.

Con la nascita dell’economia di mercato le cose iniziarono a cambiare. L’economia vera diventò quella che iniziava quando si varcava l’uscio di casa, lontana dalle competenze domestiche. E se le donne volevano “contare” per l’economia seria dovevano andare in fabbrica o in ufficio, dove però il loro savoir faire non venne valorizzato. Anche la competenza sul cibo per iniziare a contare ha dovuto lasciare la casa e le mani delle donne ed entrare nel business dei grandi chef stellati (quasi sempre maschi), perché le stelle di casa erano troppo basse e normali per poter essere viste dagli economisti e dai politici. Così tutta quella economia che si svolgeva dentro e attorno casa non transitando per il mercato restava sommersa, non registrata dai misuratori economici, e alla fine non considerata economia. E quando nacquero settori economici a lavoro prevalentemente femminile – educazione e cura –, dall’economia seria furono (e ancora sono) visti poco e pagati male, per una errata e grave confusione tra gratuità e gratis.

Anche nella Bibbia la casa è in genere associata agli uomini: la casa di Giacobbe, la casa di Davide. La casa è immagine della stirpe, del clan, dell’intero popolo (casa di Israele). Ma nell’ambiente tutto femminile del libro di Rut la casa diventa una faccenda di madri. Il popolo accoglie Rut come moglie di Boaz, e per accoglierla sente di dover chiamare la casa con nomi di donne: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che edificarono la casa d’Israele» (Rut 4,11). Rachele e Lia che edificarono la casa: due donne, due straniere come Rut, costruttrici della stessa casa. Nell’atmosfera femminile di questo libro si capì che la casa di Giacobbe l’avevano edificata anche le sue mogli. Madri amate: amatissima Rachele, dal popolo e da Giacobbe; ma amata era anche Lia, madre di Giuda, l’antenato di Boaz, che nella Bibbia, al di fuori della Genesi, è citata solo nel libro di Rut. Infatti anche Giuda entra nella seconda parte della benedizione del popolo: «Procùrati ricchezza in Èfrata, fatti un nome in Betlemme! La tua casa sia come la casa di Peres, che Tamar partorì a Giuda, grazie alla posterità che il Signore ti darà da questa giovane!» (4,11-12).

Giuda e Tamar. Siamo trasportati nel capitolo 38 della Genesi, che ci narra la loro storia e si interseca in più punti con la storia di Rut. Anche Tamar, cananea, è una giovane vedova, e nella sua storia c’è la negazione della legge del levirato da parte di suo suocero Giuda. «Vedova, ritorna alla casa di tuo padre» (Gn 38,11), le ordina suo suocero. Tamar resta sola e senza figli. Un giorno Tamar viene a sapere che Giuda è di passaggio dalle sue parti. Si toglie l’abito vedovile, si traveste, e si mette in sua attesa in un crocicchio della strada. Giuda la vede e la scambia per una prostituta (38,15). Tamar come sua mercede chiede un pegno: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano» (38,18), la sua “carta d’identità”. Tamar resta incinta di due gemelli – Peres e Zèrah. Giuda per questo la condanna a morte, ma mentre la conducono al rogo Tamar porta a termine il suo piano: «Dell’uomo a cui appartengono queste cose io sono incinta» (38, 25). Giuda riconobbe i suoi oggetti, e Tamar salvò se stessa e i suoi figli.

Rut e Noemi hanno molti tratti in comune con Tamar, donne scaltre e intraprendenti, che fanno di tutto perché la vita continui. Ospiti residenti in un mondo non fatto a loro misura, si ingegnano per non morire, si ingegnano per vivere. Il Dio biblico è il Dio della vita prima di essere il Dio della legge. A volte la vita e la legge vanno insieme e stanno dalla stessa parte, ma quando le due vie si divaricano le donne, certamente queste donne, prendono la strada della vita, e lo fanno senza indugio. Lo fece Tamar, lo fece Rachele che, in cambio della propria fertilità (tramite le mandragore di Ruben: Gn 30), prestò per una notte suo marito Giacobbe a sua sorella Lia. La Bibbia – e noi con essa – loda questa tipica intraprendenza delle sue donne, questa loro splendida libertà. La libertà delle donne per molti aspetti è stata e continua a essere limitata, ma per altri è stata superiore a quella degli uomini, perché radicale e capace di trasgressioni vitali ignote a noi maschi, tanto ignote da non capirle. La Bibbia, scritta da maschi, l’ha almeno intuita, e così è diventata più grande dei suoi scrittori.

In questa benedizione nuziale a Boaz e Rut ritroviamo allora una tensione profonda che attraversa tutta la Bibbia: quella tra la legge della vita e la legge degli uomini. Nel libro di Rut questa tensione diventa anche la tensione tra la logica maschile e quella femminile. Rut, e più di lei sua suocera Noemi, hanno una loro oikonomia della salvezza, hanno il loro modo di aiutare Dio a salvare il mondo e la loro famiglia. Non mettono Dio contro la vita, ma se qualche volta questo conflitto si crea, o così appare, scelgono la vita.

Sara non avrebbe mai portato Isacco sul Monte Moria, non sarebbe partita da casa, e anche se Dio le fosse apparso e le avesse parlato, lei avrebbe creduto che fosse un demone, perché preferiva essere visitata da un demone che da un dio che chiede di uccidere i figli. O Agar, che fuggì nel deserto insieme al figlio Ismaele per morire con lui. L’angelo che apparve ad Agar salvando suo figlio dalla morte non è lo stesso angelo che fermò il coltello di Abramo; perché le donne non conoscono questi angeli, non li riconoscono, non ne hanno bisogno, non li amano, non li pregano, perché non portano i figli su quegli altari, si fermano un po’ prima. Gli angeli, si dice, non hanno sesso; ma certamente quelli che appaiono alle donne sono diversi da quelli che appaiono agli uomini. Le donne pregano e ascoltano soltanto gli angeli della vita, quelli che somigliano alle cicogne fino a confondersi con esse.

E se al posto di Re Davide ci fosse stata Maaca, la madre di suo figlio Assalonne, sarebbe corsa nel bosco e con le sue spalle avrebbe sorretto il corpo del figlio appeso al legno, lo avrebbe salvato, o sarebbe morta con lui. E se al posto di Mosè ci fosse stata sua sorella Maria, questa avrebbe protestato con Dio per la morte dei primogeniti degli egiziani, perché sapeva che i figli di ogni donna sono figli di tutte le donne. E se al posto di re Salomone ci fosse stata una delle sue mogli, di fronte alle due madri che rivendicavano lo stesso bambino non avrebbe mai proposto la soluzione della spada, neanche per finzione, perché le donne già protestano quando vedono i bambini con le spade di plastica giocare ai moschettieri. E come sarebbe stata la storia umana se nei suoi bivi decisivi a scegliere ci fossero state le donne.
È questa la legge che le donne conoscono. L’altra legge l’hanno lasciata a noi maschi, ai nostri esercizi di potere e di guerra, alla nostra oikonomia diversa e che non hanno mai capito. Forse solo in paradiso saranno raccolte in un oceano tutte le lacrime che le donne hanno versato e continuano a versare per il dolore generato dagli esercizi dei loro uomini.

Infine, gli anziani augurano a Boaz di avere ricchezze, ma gli augurano anche di “farsi un nome”. Che tu possa farti un nome. Boaz aveva già un nome, una fama di uomo giusto. Ma ora, con il possibile arrivo di un figlio, il nome diventa qualcosa di diverso. Gli uomini hanno un ruolo secondario nel libro di Rut, perché noi uomini abbiamo un ruolo secondario e sussidiario nella trasmissione della vita. Per quanta parità possiamo e dobbiamo creare nella cura e nell’accudimento dei bambini, nella generazione dei figli e in quel che accade nei loro primi anni, ci sarà sempre una asimmetria con le donne, che dobbiamo mitemente accettare, e non farla diventare competizione né invidia. Ma possiamo contribuire nel lasciare un buon “nome” ai nostri figli. È questo nome del padre, più importante del cognome, la prima eredità che lasciamo ai figli, il nostro primo e forse unico vero patrimonio (patres-munus: il dono/obbligo dei padri).
Il nome è la nostra giustizia, è la nostra onestà, la nostra verità che lasciamo. Il nome è non aver venduto l’anima al potere e alla ricchezza, è aver fatto di tutto per salvare l’innocenza dell’infanzia. Aver salvato la fede, la fiducia, un matrimonio, una vocazione, aver combattuto con i demoni e con gli angeli. Fino alla fine, quando arriverà l’ultimo angelo e ci chiamerà con quel nome buono.

l.bruni@lumsa.it

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