SAN NICOLA, SANTA LUCIA, L’ALBERO SOLARE, IL PRESEPIO, I DONI DEI MAGI
Oggi, il Natale è soprattutto la festa dei bambini e dei regali. Ci si scambiano doni e si festeggia Papà Natale, il “Father Christmas” della tradizione angloamericana che veste i colori bianco-rossi, a quanto pare, dal tempo in cui è servito, ai primi del Novecento, a reclamizzare l’allora neonata Coca-Cola. In realtà, comunque, Papà o Babbo Natale – che ancora nell’Italia dell’anteguerra, quando era poco noto, si chiamava “il Vecchio Natale” – sembra essere una laicizzazione di Santa Klaus, a sua volta nome nato da una deformazione di Sankt Nikolaus: cioè di san Nicola. Il santo vescovo di Mira, città della costa anatolica, era noto per le sue virtù taumaturgiche: per questo, alla fine dell’XI secolo, baresi e veneziani se ne contesero le reliquie. Ancora oggi esse sono venerate nella basilica barese a lui consacrata, mèta anche di molti pellegrini ortodossi, specie dalla Russia.
San Nicola, a dir la verità, non avrebbe niente a che fare col Natale di Gesù, a parte che la sua festa si celebra il 6 dicembre, in pieno Avvento. Ma un episodio leggendario a lui attribuito ci consente di tracciare un rapporto con la festa dei doni. Si narra difatti che egli lanciasse nottetempo tre globi d’oro nella casa di un pover’uomo che aveva tre figlie e, non potendo costituir loro una dote, meditava di prostituirle. Da allora il portatore dei doni, emigrato al nord, laicizzato e folklorizzato, varca nelle notti natalizie il cielo con la sua slitta tirata da renne e reca doni ai bambini. Ma la sua veste vermiglia e la slitta trainata dalle polari e solari renne non c’ingannino: dietro al santo cristiano derubricato in allegro e rubicondo nonnetto c’è in filigrana una divinità nordica solstiziale. Nel Nordeuropa, una settimana dopo san Nicola, si celebra santa Lucia – “il giorno più corto che ci sia”, almeno prima della riforma calendariale gregoriana: cioè il giorno del solstizio. Nicola e Lucia sono i “santi della luce”, i santi del sole che, giunto al momento solstiziale d’inverno, riprende vigore e comincia il suo corso ascensionale nel cielo. Da allora in poi, per sei mesi, le notti diventeranno sempre più brevi e la luce trionferà sino al solstizio d’estate, quando comincerà a decadere.
Il sole, il solstizio solare, i doni ai bambini. Che cosa può aver a che fare tutto ciò con Gesù, che nasce secondo la tradizione evangelica nella città di Betlemme, in Giudea?
La narrazione della nascita, almeno nel vangelo canonico di Matteo – ma ci sono molti vangeli apocrifi che arrecano al racconto della nascita nuovi particolari –, non fornisce particolari sul giorno e sul mese in cui essa avvenne. Ma, dal momento che l’angelo annunziò l’evento ai pastori che stavano nelle vicinanze, se ne usa dedurre che esso si verificò in estate: Betlemme è alta circa 700 metri sul livello del mare, e i pastori usavano insediarvisi, secondo le regole della transumanza, nei mesi estivi, per scendere poi verso il mare con l’autunno. Viceversa, nella nostra sensibilità e nella nostra tradizione, il Natale è una festa d’inverno. Il presepe – una tradizione avviata a quel che pare nel 1223 da Francesco d’Assisi – associa inestricabilmente la nascita del signore a un paesaggio montano innevato, per quanto il gusto orientalistico ottocentesco (incoraggiato dalla presenza di personaggi obbligatoriamente abbigliati “all’orientale”, i magi) lo abbia arricchito di palme e di fondali dove sono rappresentati oasi e deserti: a dire il vero, poco palestinesi. Nei paesi protestanti, una tradizione che si vuol far risalire a Martin Lutero ha imposto una variante invernale, scintillante di preziosi ornamenti che richiamano i ghiaccioli colpiti dalla luce d’un albero notturno gelato, dell’Albero di Maggio, il palo primaverile ornato di ghirlande e di nastri ch’è in realtà la memoria folklorica di un oggetto cultuale germanico pagano, l’Yggdrasil (letteralmente “il Frassino del Mondo”), cioè l’asse cosmico attorno al quale si ordina l’universo. L’Yggdrasil del quale si parla nelle saghe norrene (cioè in quelle narrate dai coloni norvegesi d’Islanda e raccolte ai primi del secondo millennio dopo Cristo) è una variante dell’Albero sciamanico della Vita, noto alle tradizioni centroasiatiche dei popoli delle steppe sia indoeuropei che uraloaltaici: una tradizione che, nella preistoria, è emigrata con alcuni di loro dalla Siberia all’Alaska attraverso lo stretto di Bering, ghiacciato durante il periodo invernale.
Il presepe francescano non meno dell’Albero di Natale nordico e pagano cristianizzato da Lutero radicano dunque nella stagione invernale la festa del Natale e l’associano al tempo dei doni augurali che ci si scambiano con l’arrivo del nuovo anno e che nel Nordeuropa si usavano appendere, come offerte votive, agli alberi. Il testo evangelico offre un appiglio sufficiente a cristianizzare anche l’uso pagano dei doni: l’episodio dei magi e dei loro doni di tre specie – oro, incenso, mirra –, che richiama il numero dei globi d’oro da san Nicola donato alle fanciulle povere. Tutto parrebbe inquadrarsi nell’àmbito d’una vecchia festa pagana dell’anno nuovo, cristianizzata grazie a quel che gli antropologi definiscono un processo d’acculturazione. Ma che cos’ha determinato, veramente, il radicarsi del culto della nascita del salvatore nelle feste d’inizio inverno?
Ancora una volta, l’esigenza di salvaguardare tradizioni care ai popoli ch’erano disposti ad accogliere la nuova religione ma restii ad abbandonare le antiche usanze ci fornisce una risposta. Forse già da prima che, con il 313, l’editto di Milano rendesse lecito il culto cristiano nell’impero si usava in Egitto – una delle regioni nelle quali il cristianesimo aveva più presto attecchito – celebrare insieme, in una sola festa, la Natività e l’Epifania (cioè il riconoscimento della divinità e della regalità del Bambino): ciò avveniva il 6 gennaio, data in cui tuttora si celebra il Natale nelle Chiese cristiane ortodosse e orientali. La data era desunta da una festa dedicata alla dea Iside durante la quale si adorava la sua divina maternità e si celebrava la consacrazione in suo onore delle acque. Difatti, da allora, la data del 6 gennaio venne strettamente legata, nel calendario liturgico cristiano, a due altre ricorrenze in cui avevano un ruolo le acque: il battesimo del cristo e il miracolo di Cana di Galilea.
Tale celebrazione tuttavia non parve adatta al mondo cristiano latino, per quanto il culto isiaco fosse, nel IV secolo, impiantato nell’intero bacino mediterraneo e soprattutto in Roma. Nell’Urbe, tuttavia, c’era un’altra festa molto popolare, anche perché in tale data gli imperatori usavano concedere al popolo romano generose elargizioni di grano e di vino. Si trattava del 25 dicembre, giorno nel quale culminava un periodo di due settimane durante il quale in tutta Roma veniva celebrato il solstizio d’inverno, festa dedicata a un dio d’origine indopersiana il culto misterico del quale si era molto diffuso specie tra i legionari, Mithra. La nascita di Mithra ha, nel mito che lo riguarda, singolari somiglianze con quella di Gesù nel racconto evangelico: vi figurano la grotta, la stella annunziante, gli animali sacri al dio che sono il toro e l’onagro, cioè l’asino selvatico. Nel Vicino Oriente vi erano altre divinità che avevano dato origine a culti misterici che si erano andati fondendo con il mithraismo: ad esempio quelle di Attis o di Adone (dal semitico Adonai: il Signore). Un luogo cultuale sacro a Adone si trovava difatti proprio a Betlemme, e probabilmente – come sembra di capire da una testimonianza di san Gerolamo – la grotta nella quale si disse nato Gesù, e sulla quale sorse in età costantiniana la basilica della Natività, era in precedenza consacrata a Adone. Un altro esempio di esaugurazione-acculturazione.
Mithra, la divinità misterica adorata in Roma, si era affermata come dio parallelo a una divinità solare d’origine siriana che talvolta con lui addirittura s’identifica: il Sol Comes Invictus. Si trattava d’una vera e propria religio castrensis, un culto militare: fra III e IV secolo, gli imperatori avevano cercato di farne il centro di una sorta di monoteismo incentrato sulla sacralità della loro persona, che con il Sol Comes s’identificava. Un tempio al Sol Comes – adorato durante le feste del solstizio d’inverno, quando il corso del sole comincia a rafforzarsi – sorgeva nell’Urbe sul luogo dove oggi esiste la basilica di San Silvestro, al quale difatti la Chiesa dedica la festa liturgica dell’ultimo giorno dell’anno, quando alla vigilia delle calende di gennaio i festeggiamenti solstiziali avevano termine. Nella tradizione romana, il periodo delle celebrazioni solstiziali s’intrecciava con il tempo delle celebri libertates decembris, tempo nel quale si celebrava ritualmente il ritorno del cosmo nel caos e durante il quale pertanto le abituali regole civili venivano ritualmente violate e sconvolte. Queste libertates coincidevano con la settimana dei Saturnalia, dal 17 al 23 dicembre, in ricordo dell’età d’oro che vi sarebbe stata ai tempi del dio Saturno, quando non esistevano né schiavi né padroni. In realtà, il significato della festa era più profondo. Saturno s’identificava con l’ellenico Chronos, il dio ellenico signore e ordinatore del tempo (funzione in Roma ereditata poi dal dio Giano, il “Signore della Porta” – Ianua – che presiedeva al chiudersi dell’anno vecchio e all’aprirsi dell’anno nuovo). Il “ritorno al caos” alla fine dell’anno era un rito mimetico del disordine imperante in ogni era al suo tramontare: e preludeva alla restaurazione dell’ordine. Era quindi logico che, al chiudersi dei disordini saturnali di dicembre, il sole fin lì indebolito riprendesse col solstizio d’inverno il suo corso più vigoroso: e si celebrasse la nascita del Sole Bambino e dell’Anno Bambino, entrambi riassunti nella divinità imperiale del Sol Comes-Mithra: che in quanto nuovo Sole era Kosmokrator, Signore del Cosmo, e in quanto nuovo Anno era Chronokrator, Signore del Tempo.
Celebrando il 25 dicembre la nascita del Cristo, Lo si associava all’imperatore che, convertito al cristianesimo, sarebbe stato suo vicario e sua figura in terra. Al Cristo Signore del Cosmo facevano corona i dodici apostoli come costellazioni; al cristo Signore dell’Anno i dodici apostoli come mesi calendariali. I magi con i loro doni (solo tardivamente la tradizione li fissò nel numero di tre e conferì a ciascuno di loro un nome) erano al suo cospetto le primitiae gentium, i simboli dei popoli pagani disposti alla conversione: e i loro doni erano il segno tangibile del loro assoggettarsi al Re dei Re.
In tal modo il Natale s’impiantò, nell’impero romano ormai guadagnato al cristianesimo, come festa romana, imperiale e solare: e s’impose l’adorazione del Cristo come Sol Iustitiae, garanzia di giustizia, d’ordine e di pace per tutti i popoli.