Amato, contestato o anche a volte strumentalizzato il presepe ha un suo perché, anche oggi. È un simbolo largo, religioso solo nella misura in cui non perde la sua statura laica e feriale, la forza dei racconti da cui trae origine, la accoglienza delle sue immagini. Al suo centro una scena solo apparentemente scontata: una donna con un bambino e, talvolta un po’ in disparte, almeno nelle pitture, o altrimenti a fianco, un uomo. Immediatamente siamo pronti a tradurre, è una famiglia, anzi certamente è la Santa Famiglia. Intorno piccole vite spesso disprezzate, da quelle degli animali a quelle di pastori e pastorelle: sempre in prima fila gli uomini, ma fa poca differenza, tanto nei luoghi sacri non possono entrare né le une né gli altri, per la loro vicinanza alle bestie. Non fa una piega, si potrebbe dire: ma invece ha molte crepe, quelle che la costituiscono come luogo di benedizione, come spazio accogliente, come parola trasformativa. A cominciare proprio dalla scena centrale: quell’uomo non è il padre. Non lo è nelle narrazioni evangeliche e lo sappiamo bene; non lo è nelle sospettose chiacchiere che vanno in giro e raccogliamo in scritti di vario genere, che mettono in dubbio la correttezza di quella nascita. I dubbi di Giuseppe ci vengono restituiti anche da Matteo: secondo la regola, avrebbe dovuto denunciare Maria, che sarebbe stata lapidata. Non denuncia e resta lì, infrangendo le regole dell’onore (maschile, certo) e dell’orgoglio del lignaggio, in una famiglia pure un po’ importante: non a caso in occasione di quest’ anno (anche) a lui dedicato, si sono scritte bellissime riflessioni sulla maschilità (Autiero- Perroni (a cura) Maschilità in questione, Queriniana 2021). La tradizione più fedele ha poi anche parlato di un rapporto tra quei due molto diverso da quello comune fra gli sposi. Piccole vite, anche le loro, in linea con quelle di chi va a trovarli: chissà, anche gli angeli sono forse le ombre dei pensieri dei pastori? Certo in linea anche con la storia di quel lignaggio, che è pure, sempre secondo Matteo, molto poco zuccherata: attraversata da storie di donne, un po’ audaci e un po’ oltraggiate dalla vita e dalle circostanze – da Tamar a Rut, da Raab a Betsabea, fino appunto, a Maria e alla sua gravidanza fuori da quello che ci si sarebbe potuti aspettare. La storia continua in questo modo ed è già contenuta nella scena centrale, in maniera pesante ed eloquente. Non a caso in Amoris Laetitia si ricorda così (spostandosi molto su Maria, ma è anche giusto) per tutte le famiglie, cioè per chiunque ha, ha avuto – o magari ha perduto – un amore, una casa, un luogo: «Davanti a ogni famiglia si presenta l’icona della famiglia di Nazaret, con la sua quotidianità fatta di fatiche e persino di incubi, come quando dovette patire l’incomprensibile violenza di Erode, esperienza che si ripete tragicamente ancor oggi in tante famiglie di profu-ghi rifiutati e inermi. Come i magi, le famiglie sono invitate a contemplare il Bambino e la Madre, a prostrarsi e ad adorarlo (cfr. Mt 2,11). Come Maria, sono esortate a vivere con coraggio e serenità le loro sfide familiari, tristi ed entusiasmanti, e a custodire e meditare nel cuore le meraviglie di Dio (cfr. Lc 2,19.51). Nel tesoro del cuore di Maria ci sono anche tutti gli avvenimenti di ciascuna delle nostre famiglie, che ella conserva premurosamente. Perciò può aiutarci a interpretarli per riconoscere nella storia familiare il messaggio di Dio» ( Amoris laetitia, n. 30). Come non mettere tutto questo a fianco dei muri e delle onde, non fittizie, ma segno tangibile della nostra comune dis/umanità? Piccoli bambini, donne in fuga, uomini straziati. Grido dell’umanità, grido della terra, grido della Croce. Come non mettere quel presepe, con gli affetti che lo attraversano, al centro dell’amore e della benedizione, di tutti e di ognuno, di ogni piccolo gesto di amore, che fa la differenza (GE 144-145) ben al di là dei piccoli recinti e dei giudizi risentiti? Per tutto questo quelle persone, quelle vicende hanno raccolto e raccolgono sguardi e sospiri, preghiere e desideri, drammi e gioie di tanti, di tutti purché non lo escludano. Per tutti questo si deve riconoscere che ‘quei tre’, quella loro famiglia, è al cuore della santità, anche se per abitudine a santa preferiamo la parola ‘sacra’. Ma ci può stare, non è (solo) questione di trovare la parola migliore. Potrebbe anche non starci, invece – e ben al di là del termine – se la sacralità venisse pensata in opposizione a profanità, come confine che separa, invece che come profondità che benedice. Questo secondo modo sarebbe più vicino a quello di chi impedisce l’accesso dei pastori, lapida le donne, respinge gli innocenti, distrugge e uccide. Non sia così. E quando lo fosse stato, c’è sempre spazio per la conversione, per tornare per un’altra strada. Quel simbolo tenero e forte infatti non è risentito, non è riservato, non è separante, non è neppure solo estetico e zuccheroso. È pane buono per tutti, per un mondo fatto casa che non esclude, secondo l’etimologia di uno dei suoi luoghi. Bet-lehem, Casa del pane. Docente teologia patristica Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale Dal 2013 al 2021 presidente Coordinamento nazionale delle teologhe italiane IL MISTERO Come non mettere la Sacra Famiglia, con gli affetti che lattraversano, al centro di ogni piccolo o grande gesto damore?