FAMIGLIE, IL TEMPO DEL SORRISO

di Franco Giulio Brambilla da Noi in Famiglia Avvenire 22 maggio 2022

Vorrei sviluppare la “prospettiva fondamentale” che sta alla base di Amoris laetitia e che richiede un approfondimento teologico per rendere comprensibile lo spirito e la lettera dell’Esortazione. Possiamo dire che il quadro di fondo, in cui possiamo collocare sia l’ermeneutica del “nostro amore quotidiano,” sia il percorso di “accompagnamento, discernimento e integrazione”, è disegnato da quattro direttrici.

  1. Un cambiamento di stile e linguaggio: il sapere pratico

La prima direttrice riguarda lo stile e il linguaggio di Amoris laetitia.

A giudizio di molti, l’Esortazione è un testo innovatore perché cambia lo stile e il linguaggio sul tema del matrimonio e della famiglia. Lo stile è incoraggiante, concreto, evita idealizzazioni, assume le fatiche e le ferite, dischiude prospettive di ripresa e integrazione. Il linguaggio è nuovo, misericordioso, evita moralismi e giudizi generalizzanti, anzi ci impegna al cambiamento dello sguardo, da rendere più limpido con il collirio della misericordia (come dice al n. 296). Misericordia non significa passar sopra le situazioni gravi dal punto di vista morale e spirituale. Un’autentica misericordia deve anche saper mettere in guardia da azioni e pratiche che si ritorcono contro l’umano, ma domanda di accompagnarle sulla via della riconciliazione. Ciò comporta di considerare l’uomo e la donna più grandi anche del loro agire negativo, aprendoli alla speranza di una vita rinnovata. Questo spiega anche l’espressione di Amoris laetitia spesso ricordata: bisogna accettare che non tutte le discussioni dottrinali, morali e pastorali possano o debbano essere risolte con interventi del Magistero (n. 3). Il nuovo approccio si rivela così autenticamente pastorale, alieno da formulazioni che non siano attente al rapporto tra agire umano, norma morale e cammino cristiano.

Più in radice, infatti, la novità di stile e linguaggio rimanda a un agire che si alimenta al sapere pratico, cioè a quel sapere che stabilisce una forte circolarità fra dottrina e prassi.

La lingua diAmoris laetitia (in particolare il cap. IV) è un mirabile esempio di questo sforzo. L’istanza più profonda che emerge dall’Esortazione è quella di favorire una pratica e un linguaggio che siano capaci di prossimità e di parola (pensiamo all’accompagnamento della pastorale familiare) e che non presentino solo una dottrina da mettere in pratica o semplicemente da adattare alla pratica (linguaggio deduttivo e applicativo), ma sappiano dire il Vangelo nel cuore dell’agire umano, nell’esperienza dell’amore e nella costru- zione di un cammino di vita, mediante un linguaggio sapiente e sapido. Il sapere pratico e il linguaggio corrispondente pertanto devono cimentarsi almeno sui tre aspetti seguenti, che disegnano le linee ermeneutiche per comprendere Amoris laetitia.

  1. Il discernimento e l’esercizio della prudenza: il momento conoscitivo

La seconda direttrice concerne il discernimento e l’esercizio della virtù di prudenza.

Il discernimento è il processo che porta ad agire bene, la prudenza è l’atto che decide in modo sapiente. Il discernimento non va collocato solo nella dialettica tra agire umano (coscienza) e legge morale (norma), tra momento soggettivo e momento oggettivo del giudizio morale. Questo schema duale è troppo angusto e corre il duplice rischio di ricadere in una visione oggettivistica del bene e, corrispondentemente, in una concezione passiva della coscienza. Quando il rapporto tra agire e norma è pensato così, la coscienza implicata nell’agire non può che adeguarsi alla norma, a monte del cimento pratico che accade nell’azione.

Il discernimento, invece, deve aprirsi a una dinamica triadica, che s’instaura tra agire, norma e bene: il bene si rende presente realmente nella norma o nella legge, ma non si esaurisce in essa; l’agire umano intende acconsentire al bene presente nella legge, di modo che la coscienza ne anticipi il senso, decidendosi per esso. La decisione pratica (virtù della prudenza) ha la forma di un atto pratico, che si attua prestando credito (la fede) al bene promesso e attuandolo nel suo agire buono (l’azione). Fede e morale, coscienza credente e agire etico sono così strettamente connessi. Il credito prestato al bene promesso, che la legge (norma morale) media effettivamente, anche se non esaurisce totalmente, si realizza nel-l’atto pratico dell’agire umano. È l’atto della fede che si affida al dono della promessa (grazia), anticipato (dalla coscienza) riconoscendo l’obbligazione della Legge (comandamento). Il comandamento, allora, è prima “grazia” che “legge” o, per meglio dire, è legge che preserva il dono della promessa e riconosce la promessa come dono. Non si può pertanto contrapporre Grazia e Legge: la promessa (il dono) è l’orizzonte che illumina e alimenta sempre la seconda (la norma); la Legge (il comandamento) custodisce il carattere di promessa del dono di Dio (la grazia). Per comprendere tale intimo legame, bisogna chiedersi: perché il comandamento difende il dono dell’alleanza, mentre la promessa ha bisogno di articolarsi nelle Dieci Parole, pur superandole radicalmente?

Possiamo spiegarlo così. Da un lato, la Legge proibisce alla libertà di essere incontentabile e onnipotente, perché il Comandamento impedisce al desiderio di saturarsi nel godimento smodato. L’ultimo comandamento, che riassume tutti gli altri ( non concupisces, Vulgata, Ex 20,17), non ha un oggetto preciso, o meglio intende tutti i beni dell’agire.

Di fronte ad essi intima: non desidererai in modo vorace e dispotico, non eserciterai la tua libertà in modo possessivo. Dall’altro,

il primo comandamento rende possibile il desiderio buono, mettendo al centro il primato di Dio (l’unicità di Dio, Es 20,2), così che il desiderio diventi coscienza credente, libertà che si affida. Il primo comandamento custodisce la fede, l’ultimo la preserva dal sostituirla con l’idolatria dell’ego insaziabile e del desiderio onnipotente. In mezzo ci stanno i comandamenti verso Dio e verso il prossimo. Se così non fosse, la libertà non solo perderebbe il Bene promesso, ma alla fine distruggerebbe l’io stesso, che può avvitarsi nel desiderio dispotico e indebolire la forma del desiderio disponibile con cui solo può accedere al bene proprio e altrui. Ecco il dispositivo delle Dieci Parole.

Promessa e Comandamento, Grazia e Legge hanno, dunque, a che fare con il cammino della vita, con la libertà distesa nel tempo, con il sapere che s’impara avventurandosi (discernimento) e decidendosi (prudenza) nel percorso della vicenda umana. Per questo l’agire cosciente è messo sempre di fronte al bene possibile. La libertà nel discernimento, posta nelle attuali condizioni di vita, è “chiamata” dalla promessa (la Grazia) a volere il bene più grande possibile e “guidata” dalla legge (il Comandamento) che gli vieta di volere in modo insaziabile e vorace, ma anzi gli in-segna a volere in maniera con-senziente e ad af-fidarsi con un desiderio disponibile. La promessa, allora, è vocazione e appello al bene più grande, mentre la legge è luce e guida sui nostri passi, per aprire la libertà allo splendore del bene e del vero.

  1. L’agire nel tempo e la legge della gradualità: il momento operativo

La terza direttrice richiede di considerare la dimensione temporale dell’agire umano, cioè il fatto che l’agire umano si distende nel tempo (giàFamiliaris Consortio parlava della «cosiddetta “legge della gradualità”, o cammino graduale, [che] non può identificarsi con la “gradualità della legge”, come se ci fossero vari gradi e varie forme di precetto nella legge divina per uomini e situazioni diverse », FC 34). Il tempo dell’agire morale, infatti, si snoda tra la promessa e il compimento, costellati di realizzazioni parziali. È la dimensione escatologica del cristianesimo che impone di pensare alla storicità dell’agire morale, la quale accade sul cammino della vita attraverso graduali compimenti, che stanno in tensione tra il valore ideale e l’attuazione storica.

Il giudizio sull’azione morale, allora, dovrà passare dalla considerazione della qualità dell’agire umano, valutata con la domanda «che cosa hai fatto?» alla ponderazione del medesimo agire, ponendo la questione «dove sei diretto?». Tale questione ha valore spirituale (fede) e morale (etica) insieme. Per questo, con il suo linguaggio incoraggiante, Amoris laetitia ricorda che «un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà» (n. 305). Ne deriva che il cimento storico dell’agire umano è il luogo della legge della gradualità. In essa si attua quel sapere pratico, che si realizza tra il bene promesso (e voluto) e il bene attuato (e compiuto), perché la vita è fatta di compimenti parziali, di cadute e di riprese che, se vogliono, possono tendere sempre a quel bene, che li precede e li attrae col dono di grazia, anche se non riescono mai ad adeguarlo.

La legge della gradualità non introduce solo un criterio di valutazione morale, ma è anzitutto un indicatore per la vita spirituale. Pastori, coppie guida, comunità cristiane, vincoli di amicizia possono accompagnare la coppia e la famiglia lungo il cammino mettendola in rete, costruendo legami buoni che aiutino a coltivare la promessa e a godere dei piccoli e grandi traguardi della vita. Passare da una morale dei casi (che distingue il lecito dall’illecito) a una morale della vita buona (che discerne le scelte per far crescere una vocazione) è l’urgenza del tempo presente. Sogniamo una comunità cristiana e un ministero pastorale che sia capace di cordiale e corale accompagnamento delle coppie e delle famiglie, perché il loro olio non si esaurisca nella lampada, ma continui ad alimentare con il balsamo della fedeltà e la luce della fede l’avventura che ogni giorno fa della famiglia un luogo generativo. Per la coppia, per i figli e per il mondo.

Vescovo di Novara  Franco Giulio Brambilla

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