“HO CURA DI TE” FAMIGLIA, SCUOLA DI RELAZIONI

di Vincenzo Rosito da Noi in famiglia Avvenire del 25 settembre 2022

IDEE Educare all’attenzione verso persone e sfera domestica fa crescere in modo generativo la sensibilità per gli aspetti ecologici e per gli spazi pubblici

Molto spesso le pratiche di cura ci fanno pensare esclusivamente ad alcuneprofessioni o istituzioni specializzate. Quando parliamo dei “professionisti della cura”disegniamo una geografia lavorativa e sociale suddivisa in rigidi comportamenti. Il mondo dell’interazione e della socializzazione rischia così di diventare un arcipelago disomogeneo, talvolta faticoso e invivibile: c’è un’isola della cura domestica o dell’assistenza a domicilio. C’è l’isola delle cure mediche specializzate, fatta prevalentemente di cliniche e ospedali: C’è poi il grande continente della cura di sè e del benessere personale, disseminato di palestre e luoghi ricreativi di ogni genere. Questo panorame della “cura segmentata” può risultare funzionale a un’esistenza suddivisa in dipartimenti vitali: Tuttavia la cura smembrata in luoghi e competenze isolate rischia di perdere la sua dimensione creativa e innovativa. Curare o avere cura non sono azioni  con cui ci limitiamo a riparare il mondo: Noi tutti abbiamo cura e curiamo quandopratichiamo gesti capaci di trasformare il mondo. Bisogna riscoprire l’assonanza radicale e profonda tra cura e innovazione sociale. Per questo occorre impegnarsi in un grande sforzo di immaginazione collettiva per ridisegnare le connessioni tra gesti di cura e trasformazioni della vita comune. L’economista e teologa Ina Praetorius propone di interpretare la cura non come accudimento, ma come preoccupazione per il mondo. Tutti quelli che hanno a che fare con la cura, nei molteplici aspetti sociali, politici e professionali, non si accontentano di aggiustare o riparare un ordine infranto. Essi sono a tutti gli effetti dei creativi, degli innovatori, persone che immaginano insieme nuovi orizzontipratici e nuove forme per la vita collaborativa. Per prendersi cura di persone , luoghi e relazioni bisogna preoccuparsi per il mondo, bisogna sviluppare cioè una mente attenzionale, non solo una razionalità intenzionale. La mente attenzionale non si limita ad applicare modelli gestionali alla realtà, ma è costantemente all’opera nell’esercizio della sensibilità, nellìessere cioè ipersensibili verso la condizione mutevole dei viventi. Per prendersi cura di qualcosa o di qualcuno bisogna essere responsivi (response ability) prima ancora di essere responsabili. La cura può essere allora considerata una qualità dell’agire umanoin virtù della quale è possibile fare dell’interazione un atto di corrispondenza. Per gli esseri umani, in quanto soggetti capaci di cura, non è sufficiente organizzare servizi alla persona, occorre infatti procedere con le persone (going along with) in un dialogo fatto di attenzioni e reazioni.

La cura non è un gesto clinico, è un gesto sinodale. L’immagine che meglio la rappresenta non è quella dell’uomo o della donna intenti ad accudire, ma quella di uomini e donne attenti nel camminare, impegnati cioè nel “compito” di corrispondenza che reciprocamente “si devono” in un viaggio comune, come può essere ad esempio anche una passeggiata in montagna tra amici: L’antropologo Tim Ingold osserva che camminare “richiede la continua reattività del camminatore al terreno, al percorso e agli elementi. Per reagire deve prestare attenzione a queste cose mentre procede, unendosi ad esse o partecipando con esse ai propri movimenti”.Pertanto “camminare insieme”non è soltanto un’arte bisognosa di cure particolari, ma è essa stessa un gesto di cura, un paziente ed appassionato esercizio di corrispondenza. Riprendiamo ancora un’affermazione di Ingold: “Considero la corrispondenza come il modo di relazione di un essere vivente stabilito nelle proprie abitudini e il cui atteggiamento è attenzionale. E’ infatti prestandosi reciprocamente attenzione, mentre procedono insieme, che gli individui corrispondono”. La famiglia non può essere considerata una tra le tante isole vitali dove sperimentiamo un particolare linguaggio o un sapere pratico della cura. La vita familiare, in continuità con la vita sociale di ciascun individuo, progredisce insieme al flusso di crescita e di maturazione nelle facoltà attenzionali. Pertanto la sfera della vita domestica non deve farci pensare esclusivamente all’isola della vita intima o riparata. Le famiglie contemporanee non hanno bisogno soltanto di appartamenti o di cellule abitative indipendenti le une dalle altre. La cura, quale esercizio di reciproca attenzione, richiede una nuova progettazione dei luoghi dell’abitare, perchè famiglie e comunità in cammino avvertono il bisogno di vivere non solo dentro le case, ma anche attorno alle case. Per queste ragioni la cura può diventare la qualità primaria di comunità itineranti che abitano la casa comune. Le relazioni di cura che sperimentiamo prima di tutto negli spazi domesticiriguardano la famiglia in quanto contesto generativo e rigenerativo di parentela. La cura è un principio di trasformazione sociale fin dal suo primo apparire nei giorni e nelle stanze della vita familiare. Qui infatti, nell’incedere quotidiano della cura familiare, apprendiamo cosa significa essere-relati (relatedness), essere cioè inter-dipendenti, collegfati, imparentati. Gli studi antropologici sulla parentela (kinship studies) diventano oggi particolarmente importanti nella valorizzazione delle relazioni familiari di cura, quali primari esercizi di inter-dipendenza: per questa ragione la cura delle persone e degli ambienti comuni, sperimentata fin dalla prima infanzia nei contesti di vita familiare, non è sostanzialmente diversa dalla cura ecologica o municipale che ci rende soggetti attivi e collaborativi nelle piazze dell’innovazione sociale.

direttore degli studi e docente di Storia e cultura delle istituzioni familiari Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II”

Riproduzione riservata

condividi su