Le lettere arrivate alla tramissione Rai, ‘O anche no’, specchio della volontà diffusa di non cedere alla rassegnazione
Il ruolo fondamentale della comunicazione sociale per dare voce ai protagonisti e cambiare il modo di pensare Raccontare le difficoltà dei nuclei familiari più vulnerabili non significa però cedere alla “pornografia del dolore”
Gentile dottoressa Severini, mi chiamo Gino e sono il papà di un ragazzo che ha subito un trauma alla nascita ed ora ha gravi difficoltà fisiche; gentile signora, sono la mamma di un bambino portatore di una grave malattia genetica; cara Paola, mio padre ha l’Alzheimer ed è diventato come un bimbo; gentile giornalista, insieme alla mia nipotina, che è sorda, guardiamo la sua trasmissione ogni domenica mattina perchè è l’unica tutta tradotta nella lingua dei segni; cara signora, perché mandate i vostri speciali ad ore impossibili? Sono una maestra di Bari, con i miei alunni e soprattutto con le insegnanti di sostegno vi seguiamo in televisione ormai da due anni, senza perdere nemmeno una puntata!
Esiste la tv di servizio? E c’è ancora posto per una comunicazione sociale che sia davvero solidale e non soltanto ‘social’?
Da quando conduco su Rai 2 O anche no, tutti i venerdì notte e in replica alle 9 le domeniche mattina, ricevo un numero di mail e di telefonate impressionante. Cerco, cerchiamo insieme con tutta la redazione, di rispondere a ogni appello, a tutte le segnalazioni e, dove sia possibile, anche alle richieste. Non abbiamo più bisogno di trovare le storie, le buone pratiche, le proposte e i progetti che rappresentano l’anima positiva del nostro Paese: sono loro che ci vengono a cercare! È vero che quella che chiamiamo ‘comunicazione sociale’ viene definita creazione di significati condivisi finalizzati a costruire la società e dovrebbe essere assodato che la televisione pubblica ha come suo compito principale mettersi al servizio dei telespettatori e in particolar modo di coloro che hanno più necessità. Ho scritto spesso su questo giornale (benedetto e quasi unico nel panorama dei quotidiani) che il servizio pubblico non è soltanto un lavoro da professionisti, è una scelta di campo, una vocazione perché l’obiettivo è molteplice: accrescere le relazioni solidali tra gli individui, accogliere richieste, fornire risposte. Chi fa il mio mestiere deve essere cosciente di avere a disposizione un’arma formidabile e deve sentire l’onore e l’onere di usarla. Attraverso lo schermo possiamo cambiare i sentimenti e le convinzioni e mostrare che un’altra realtà è possibile e che si può scegliere la vita, sempre. Una responsabilità enorme: quando imposi Ezio Bosso a Sanremo, nel febbraio del 2016, sapevo di aver attivato un meccanismo positivo ma, nel contempo conoscevo perfettamente i rischi che questa operazione di comunicazione di massa comportava. Su 10 lettere inviate dalle famiglie di persone con disabilità almeno due mi chiedono di aiutarli a far conoscere la canzone scritta (molto spesso non è così) dal loro figlio e portarla sul palco dell’Ariston. Questo è uno dei rischi che corriamo: noi spieghiamo che essere disabili non rappresenta una patente per fare o dire cose per le quali non si è né vocati né preparati. Purtroppo questo mondo e questi comportamenti sono diventati di moda, fanno tendenza: mi aspetto anche quest’ anno una follia come quella accaduta nell’edizione 2020, quando un ragazzo con gravissima disabilità, che prima di ammalarsi faceva lo chef, fu portato in lettiga sul palco e spacciato per cantante attraverso un sintetizzatore (dopo un po’ di tempo fu chiaro, grazie a un magistrato accorto, che il ‘caso umano’ era stato usato per una raccolta fondi a beneficio di truffatori, una vicenda terribile). La pornografia del dolore o più semplicemente l’utilizzo della pietà per coinvolgere e colpevolizzare lo spettatore, per conquistare un paio di punti di share, sono utilizzati senza pudore anche nella tv di Stato. Invece la comunicazione sociale, se sviluppata con coscienza e cautela, può, deve avere una funzione generativa che può esplicarsi su due livelli: diffondere nuove relazioni e imporre nuove idee e comportamenti. Tutto questo risale alla rivoluzione del ’68 che vede all’avanguardia l’Italia, in particolar modo l’istituto della famiglia, grazie all’apporto del mondo cattolico e alla presenza di straordinari fondatori (don Zeno Saltini, don Oreste Benzi, e quei genitori che fonderanno ad esempio l’Aias, come dimenticare Teresa Serra? Era una mamma! E ancora l’Anfass, e tantissime altre realtà associative). La famiglia italiana può giustamente intestarsi quelle che Giuliano Vassalli chiamava le ‘nostre leggi di civiltà’: l’abolizione delle scuole speciali in primo luogo (che nella vicina Francia permangono e da noi sono state chiuse nel lontano ’77), il collocamento obbligatorio, la chiusura dei manicomi, la legge contro le barriere architettoniche, la sostituzione dell’interdizione (istituto spaventoso) con la splendida legge sull’Amministratore di sostegno. Tra tante luci anche molte ombre: prima fra tutte la strumentalizzazione di questo mondo da parte di molti, comprese le forze politiche, che hanno sostituito le voci dei grandi promotori dei diritti degli anni 70. Ma le famiglie sono lì, a vigilare, a combattere in prima linea. E noi le raccontiamo, ogni settimana, da 100 appuntamenti. Sì, lo scorso 31 dicembre con il nostro racconto sull’abbattimento delle barriere architettoniche e culturali nei Palazzi del potere (Quirinale, Senato e Camera) siamo arrivati a 100 appuntamenti. Nonostante il Covid e l’estate…perché la disabilità non va in vacanza! (era questo il nostro claim di luglio e agosto). Anche stavolta abbiamo stabilito un precedente, raccontando pure con uno spinoff, in 12 puntate quotidiane, la grande storia delle paralimpiadi. Ma tornando al ruolo generativo e determinante delle famiglie italiane in questo percorso, mi rifaccio alle lettere che arrivano ogni settimana e alla volontà di capovolgere il destino, di non arrendersi. Scrive il papà di Luca Tommasini da Perugia «Mai mollare!». Il panorama dei grandi media e la politica cominciano ad accorgersi del potere motivazionale che queste persone vogliono dare non solo a sè stesse ma a tutti. Persone preziosissime per il cambiamento in meglio della nostra società: non era sufficiente dunque metterle davanti alla telecamera e dar loro un microfono: bisognava ‘sapere come fare’ a porgerglielo. Queste famiglie non avevano alle loro spalle lobby potenti, non avevano denaro, non avevano partiti politici. Soltanto la voglia di non cedere alla rassegnazione. Noi siamo al loro servizio per portare un messaggio di cambiamento, di riconoscimento, di speranza, che superi ogni discriminazione e renda protagoniste del cambiamento queste magnifiche famiglie.
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