LA CHIESA LOCALE

di Erio Castellucci Arcivescovo di Modena da Famiglia domani 2/2023

Una bella e buona notizia per le famiglie

Potrebbe sembrare un elenco sterile di citazioni e rimandi, ma mi sembra necessario, per cominciare, fare riferimento ai passi del Nuovo Testamento in cui si parla della Chiesa in relazione esplicita o implicita ad un luogo: anche perché ci sarà una piccola sorpresa… Senza utilizzare le espressioni «locale», «particolare» e «universale», i primi autori cristiani – specialmente Luca negli Atti degli Apostoli e Paolo nel suo epistolario – presentano punti d’aggancio per l’articolazione della Chiesa anche in rapporto alla sua collocazione.

La Chiesa ha una dimensione universale, ma anche locale

È attestato prima di tutto che «la Chiesa» è l’intera comunità dei battezzati diffusa dovunque (cfr. Rom 16,23; At 9,31; Mt 16,18) e che sia essa, nella sua integralità, il corpo di cui Cristo è Capo (cfr. Ef 1 e Col 1). E in altri casi l’espressione «le Chiese» indica tutte le comunità del mondo, quindi ancora una volta «la» Chiesa in tutto il mondo (cfr. 1Cor 4,17; 7,17; 14,34; 16,1). La dimensione universale della Chiesa, quindi, è ben presente al Nuovo Testamento: esiste, in altre parole, la consapevolezza che tutte le comunità cristiane, dovunque si trovino e sebbene spesso siano sperdute e perseguitate, fanno parte di un’unica grande famiglia, fondata e radunata dal Signore Gesù, risorto e vivo.

Ma è ben presente anche la declinazione locale della Chiesa: sono «Chiese» le comunità della Galazia e dell’Asia (cfr. 1Cor 16,1.19): e si noti che Paolo usa il plurale «Chiese» per indicare magari le comunità di una regione, ma non le diverse comunità presenti in una stessa città; sono invece tutti i cristiani di una stessa città a costituire «la Chiesa» (cfr. At 11,26; 12,1; 14,27; 15,4; 15,22) o «la Chiesa (di Dio) in» (cfr. 1Cor 1,2; 2Cor 1,1;1Tess 1,1; At 11,22; Ap 2,8.12) o «la Chiesa di» (cfr. Rom 16,1: Cencre; Col 4,15: Laodicea).1Tess 1,1; At 11,22; Ap 2,8.12) o «la Chiesa di» (cfr. Rom 16,1: Cencre; Col 4,15: Laodicea).

Una bella e consolante sorpresa

Ed ecco la (bella) sorpresa: “Chiesa” è chiamata anche una casa o famiglia (cfr. Rom 16,5.23; 1Cor 16,19; Col 4,15; Filem 2) cristiana. Proprio da questo uso emerge l’espressione della casa/famiglia come «Chiesa domestica». Là dove è Cristo vivo, è la Chiesa locale: perché ciò che fa la Chiesa, per i primi cristiani, non è l’amministrazione di un territorio, ma la comunità – per quanto piccola possa essere – che si raduna per ascoltare la parola di Dio, celebrare i sacramenti e in modo speciale la frazione del pane, e vivere la fraternità. Cristo infatti è presente nell’eucaristia (cfr. i racconti dell’Ultima cona), nei poveri (cfr. Mt 29,81-90) ma anche nella comunità: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt 18.20).

Inizialmente i cristiani si radunavano proprio nelle case (cfr. At 2.42). Non esistevano ancora le strutture parrocchiali o fu proprio l’ambiente domestico a far maturare l’esperienza di fede.

Il linguaggio è chiaro: i cristiani non si chiamavano tra di loro con titoli desunti dalla vita sociale e lavorativa, ma dalla vita familiare: fratello, sorella, padre, madre… Successivamente, nel periodo che va dall’inizio del II all’inizio del IV secolo, segnato ancora o in molti luoghi dalla persecuzione anti-cristiana, le comunità cristiano si strutturano in maniera sempre più articolata, si dotano di ministeri stabili – già presenti del resto negli scritti neotestamentari

più tardivi – e cosi si istituzionalizzano; ma gli stessi ministeri sono intesi come compiti di guida di comunità «formato famiglia». L’esperienza ecclesiale continua a svolgersi, fino all’epoca costantiniana, sempre nelle case, in continuità con la struttura comunitaria attestata negli scritti del Nuovo Testamento; si diffondono dovunque le Domus Ecclesiae, o «case della Chiesa/ della comunità», che sono edifici messi a disposizione in maniera stabile per vivere la vita di fede, che comprendeva tre aspetti fondamentali: la celebrazione dei sacramenti del battesimo o dell’eucaristia; la preghiera, la lettura o lo studio della Parola di Dio, con la pratica delle esigenze etiche evangeliche da essa derivanti; il rispetto reciproco, la fraternità e l’accoglienza.

La fede cristiana veniva in tal modo celebrata, pensata e vissuta attraverso un’esperienza di relazioni dirette e «calde», favorite dalle dimensioni ridotte delle «case-famiglia».

Il battesimo, porta d’ingresso della vita ecclesiale, era del resto impregnato di richiami e simboli familiari che attingevano al linguaggio della nascita: è «nascita-rinascita-nuova nascita» (cfr. Gv 3,3.5; 1Pt 1,3.23; Tit 3,5); un linguaggio che riecheggia, persino nella parola che indicava i neo-battezzati, ossia «neofiti» (= «neonati»). Come la nascita fisica avveniva in famiglia, cosi la nascita o rinascita spirituale: come dunque era normale che alla nascita fisica fossero prosenti i familiari di sangue, cosi era normale che alla nascita spirituale fosse presente l’intera famiglia, la comunità, presieduta dal pater familias, il vescovo, coadiuvato da presbiteri-fratelli e da diaconi-servi.

La celebrazione eucaristica nella «Domus Ecclesiae» rappresentava fin dall’inizio il segno più grande di riconoscimento della comunità come luogo della presenza di Cristo. Solo con la nascita delle basiliche, a partire dal IV secolo, cesseranno le celebrazioni eucaristiche nelle case e si trasferiranno nel luogo pubblico del culto: allora il vescovo presiederà l’eucaristia nella basilica, dove si ritroveranno tutte le comunità familiari. Ma nel II e III secolo le Domus Ecclesiae sono ancora il luogo ordinario della celebrazione eucaristica.

Il fatto poi che la casa non fosse un luogo d’élite, ma fosse aperta a tutti i battezzati, faceva sperimentare nel concreto la nota sentenza paolina di Gal 3,27-28: «quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero: non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (cfr. anche 1Cor 12,13; Col 3,11). Nelle Chiese domestiche si incontravano fianco a fianco: «giudei o greci», ossia cristiani provenienti dall’ebraismo e altri dal paganesimo; «uomini e donne», poiché le comunità domestiche erano ovviamente miste e, anzi, spesso guidate e organizzate da donne dato il legame stretto tra donna e casa; «schiavi e liberi», poiché comprendeva battezzati di tutti gli strati sociali – cittadini o schiavi, ricchi o poveri, intellettuali o illetterati – che si riconoscevano nella comune categoria teologica di «fratelli». In quelle prime esperienze di Chiese locali, Chiese domestiche, maturò a poco a poco la coscienza di una vera uguaglianza di fondo tra tutti i battezzati, a qualunque etnia, sesso, condizione sociale appartenessero.

La famiglia, centro della Chiesa

La famiglia era il centro nevralgico dell’attività ecclesiale, era la Chiesa nella sua forma più vicina alle persone: l’evangelizzazione e la pastorale, successivamente accentrate nelle parrocchie e nelle diocesi, inizialmente avvenivano dentro le case. Richiamare questi elementi originari non implica né una critica nei confronti degli sviluppi successivi – giusti e inevitabili, visto l’aumento numerico dei battezzati – e nemmeno sognare nostalgici balzi all’indietro. Significa piuttosto guardare l’oggi con favore, cercando di cogliere come kairòs, tempo favorevole, il desiderio diffuso di relazioni prossime, di comunità capaci di relazioni affettivamente profonde. Il primo anno del Cammino sinodale delle Chiese in Italia ha registrato, come richiesta e forse come sogno unanimemente condiviso, proprio il desiderio che la Chiesa sia «locale», cioè vicina, accogliente, in formato-famiglia.

Si sta così facendo strada anche la convinzione che il contesto della casa sia da recuperare come esperienza primaria di Chiesa, poiché la famiglia è un luogo privilegiato, una vera cellula della Chiesa che, a fianco di altre (comunità parrocchiali, comunità religiose, ecc.), contribuisce alla vitalità e alla diffusione di tutta la Chiesa. Quanto più le famiglie vivono la dimensione della «Chiesa domestica», tanto più la Chiesa parrocchiale, diocesana e universale potrà vivere la dimensione «familiare» della Chiesa. Quanto più la famiglia è una «piccola Chiesa», tanto più tutta la Chiesa può diventare una «grande famiglia». Il recupero dell’esperienza ecclesiale vissuta localmente nelle case ha una funzione missionaria promettente: offre un’immagine e un’esperienza di Chiesa «a misura d’uomo», capace di offrire luoghi e occasioni di relazione, di incontro fuori dal «luogo sacro» per eccellenza. Molte persone che, pur essendo battezzate, avvertono, per diversi motivi, lontana la Chiesa, possono riscoprire la bellezza della fede passando attraverso il contesto di relazioni familiari cordiali e aperte.

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