La maternità possibile

di Sabina Fadel da Messaggero di Sant'Antonio 8 maggio 2022

Chi sono le madri? Si può essere madre senza aver generato fisicamente un figlio? Come vivere la maternità spirituale? Sono tante le domande che ruotano attorno a questo tema…

Meglio chiarirlo subito: questo non è un articolo «politicamente corretto». Nel senso che il punto di vista di chi scrive, donna e madre, è molto chiaro: ogni donna con la questione «maternità» deve prima o poi confrontarsi. La mente, il corpo (ben prima del ruolo sociale o dell’educazione) di una donna sono costruiti per portare in sé una nuova vita, per darla alla luce e averne cura.

Da quando, con l’inizio della pubertà, si affaccia nell’esistenza di ogni ragazza il menarca, ogni mese la natura le ricorda che è nata per essere, potenzialmente, una madre. Poi, certo, la vita riserva tante sorprese ma, al di là di quale sia il cammino esistenziale che percorrerà, una donna non potrà mai dimenticare di essere, in potenza, una madre. E se cercherà in qualche modo di soprassedere, prima o poi, con il fantasma del figlio possibile sarà chiamata a fare i conti.

Così non è invece per un uomo rispetto alla paternità, perché il suo corpo (e la sua mente) non è strutturato principalmente attorno a questo scopo. Un uomo può avere figli senza nemmeno sapere di averli generati; la natura non lo mette ogni mese dinanzi alla sua potenziale paternità. Piaccia o non piaccia, il buon Dio (o, se preferite, la natura) ci ha fatte così e non possiamo non tenerne conto. Purtroppo la scelta non sempre è possibile, perché ci sono donne che, pur desiderandolo moltissimo, un figlio non possono averlo.

E allora spesso si aprono percorsi tortuosi, carichi di dolore e di delusioni, vere e proprie viae crucis dinanzi alle quali bisogna porsi con rispetto e comprensione, pur magari non condividendole. Come quelle di chi sceglie di sottoporsi a estenuanti cure o a veri e propri bombardamenti ormonali che, oltre a mettere a repentaglio la sua salute, non portano ad alcun risultato (ne parla, con delicatezza, ironia e profonda sensibilità, Eleonora Mazzoni nel suo romanzo Le difettose, Einaudi). Oppure di chi, in preda a un dolore interiore lacerante con cui non riesce a venire a patti, decide di «affittare» l’utero di un’altra donna (spesso mossa dal bisogno economico e quindi a sua volta non veramente libera di scegliere) pur di poter «avere» un figlio.

Altre donne ancora scelgono la via dell’adozione, però talvolta confondono il diritto di un bambino ad avere una famiglia, vero presupposto dell’adozione, con il diritto a «possedere» un figlio. Com’è accaduto, per esempio, a L., 59 anni, madre adottiva di due ragazzi ormai pluriventenni: «Quando ho scoperto di non poter avere dei figli miei – racconta – ho attraversato anni laceranti. Non trovavo pace. Ogni pancia che cresceva nelle mie amiche la vivevo come una mia sconfitta personale. Ero arrivata a odiare tutte le donne che potevano accogliere nel loro grembo la vita. Mi ribellavo contro quella che vivevo come una profonda ingiustizia, come una beffa del destino. Ero una donna, avevo un utero: perché Dio era stato così crudele da darmelo se era inutile?».

«Dopo anni di rabbia e un percorso psicoterapeutico per venirne a capo, ho poi intrapreso, d’accordo con mio marito ovviamente, il percorso dell’adozione. Non è stato facile neanche questo, però. Anche qui vivevo ogni colloquio, ogni step per l’idoneità come un’ingiustizia: perché io dovevo essere valutata mentre le altre donne, quelle fisicamente feconde, no? Perché a me era richiesta la “patente” di madre? Finché non ho compreso che dovevo cambiare prospettiva: non ero chiamata a guardare il mondo con i miei occhi, ma con quelli del mio futuro “figlio d’anima”, come si chiamano nella mia regione i bambini adottati».

«Paradossalmente ho sentito che a me era richiesto un surplus di generosità rispetto alle altre madri, che la vita mi chiedeva di essere ancora “più madre” delle altre, scegliendo di custodire e far crescere una vita non generata fisicamente da me, nei confronti della quale non potevo vantare alcun diritto. Anzi, dinanzi alla quale ero io a dover rispondere: “Eccomi”. Io a dover dire: “Sono qui per rispondere al tuo diritto di avere una famiglia”».

Quando i figli si moltiplicano

Ci sono poi donne che a un figlio «fisico» rinunciano consapevolmente. Alcune in nome della carriera (anche qui, facile gettare la croce addosso alle donne, dimenticando le responsabilità di una società che non aiuta ad armonizzare famiglia e lavoro o che, peggio, toglie il lavoro precario alle donne che scelgono la maternità…); altre in nome di professioni o ideali di vita talmente totalizzanti da non lasciare spazio non solo a un figlio, ma nemmeno a una vita affettiva. Altre ancora perché hanno fatto la scelta della castità, come le religiose o le laiche consacrate. Eppure, proprio tra queste ultime, molte vengono appellate «madri», come se lo fossero a prescindere, come se la loro rinuncia a un figlio «nella carne», in realtà le avesse aperte a una sorta di maternità universale.

Lo spiega molto bene madre Maria Emmanuel Corradini, medico e monaca benedettina, nel volume di Federica Storace, Madri per sempre. Donne raccontano maternità possibili (Erga edizioni). Scegliendo la vita religiosa, dice, non sono «diventata sterile, tiepida oppure zitella. No, anzi, l’amore per Cristo fa sì che, di giorno in giorno, cresca l’esperienza della maternità, cresca l’esperienza del bisogno altrui, che, giorno dopo giorno, l’altro ti sia necessario per far esprimere la tua carità, la tua gioia, la tua compassione. È chiaro perciò che la maternità non è un fatto fisico, ma un fatto di cuore. Una donna può avere anche tanti figli ma non avere atteggiamenti materni».

Dello stesso avviso, suor Deborah Raineri, delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che ci confida: «Se penso alla maternità, riemergono in me tanti incontri: amici, bambini, giovani, uomini, donne, anziani… Riaffiorano abbracci, pianti, carezze, sorprese, profumi, gesti… Sì, perché ogni piccolo gesto che si prende cura è maternità. Puoi essere madre in mille modi senza generare fisicamente la vita, ma abbracciandola in tutte le sue sfumature! È facile? No! Ho cercato di far crescere in questi anni di vita religiosa un cuore che ama e che desidera il bene vero come quello di una mamma! E una mamma ama veramente quando incontra la libertà di suo figlio, che potrà anche sbagliare, ma per lei sarà sempre la sua vita! E sei madre sempre! Negli anni pieni di entusiasmo della giovinezza, dove credi di essere tu a salvare i giovani e le persone che incontri. Sei madre negli anni della maturità, quando intuisci che c’è un filo rosso che lega le esperienze. E sei madre quando le forze ti abbandonano, ma rimane il cuore che ama, spera e genera vita».

«Ho scelto di non essere madre fisicamente per vocazione – le fa eco suor Patrizia Rossi, anch’essa Salesiana di don Bosco –. E tuttavia ho avuto molti figli nella mia vita, come donna consacrata e come educatrice. In questi anni il mio grembo si è allargato alla stregua di una grande tenda per accogliere figli che, quotidianamente, bussano alla porta del mio cuore. E mi commuovo ogni volta nel vedere gli occhi dei miei studenti cercare in me un sorriso, un gesto, un abbraccio o una lacrima. Sì perché la mia maternità è a briglia sciolta, un flusso emotivo che mi attraversa nel silenzio. A volte vorrei anch’io avere un figlio tutto per me con cui intessere la trama delle giornate. La rinuncia a una maternità fisica non è indolore. Ma la generosità della vita che Dio mi dona mi regala ogni giorno figli nuovi con cui ripartire e figli più grandi da sostenere per raggiungere i loro sogni».

«Ogni volta che mi trovo a rispondere a chi mi chiede se non sento la nostalgia di un figlio “mio” – dice infine suor C., Francescana Elisabettina – mi torna in mente un brano del Vangelo di Luca: “Pietro allora disse: ‘Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito’. Ed egli rispose: ‘In verità io vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà’” (Lc 18,28-30). Pietro, come sempre senza peli sulla lingua, esprime il bisogno di sentire riconosciuto il suo “impegno nel lasciare tutto” per seguire Gesù. E Gesù chiarisce che chi lo segue non deve mettere in conto tanto la fatica di ciò che lascia ma anche il dono, forse incredibile, che supera di gran lunga quanto crede di aver perso».

«Quindi chi ha seguito Gesù nella castità, rinunciando a una famiglia propria, non è detto che non possa vivere, in altro modo, la propria maternità o che non possa trovare “figli e figlie” lì dove viene inviato. Essere “madre” non è legato al generare fisicamente ma a quel darsi gratuitamente per l’altro senza la pretesa di una qualsiasi restituzione, come farebbe appunto una madre per un figlio. Per muoversi in questo modo, è necessario sentirsi già piena e sicura di un “amore più grande”, che fa agire senza voler essere ricambiata in qualche modo. Una gratuità nella relazione che certo non è facile, ma è frutto di un cammino umano e spirituale insieme».

«Maternità è l’eccomi di chi risponde al grido dell’infante che cerca senso, cura, corpo, parola che è luce. “Sei qui perché desiderato”» scrive Massimo Recalcati. E le donne rispondono: siamo madri perché, certo, abbiamo lasciato spazio al desiderio di un figlio, ma, ancora prima, perché abbiamo scelto di coltivare il nostro desiderio di essere madri.

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