In uno dei sonetti più celebri del Sommo Poeta il senso della relazione autentica
Il talento come apertura alla vita, la capacità di donare qualcosa di sé, la vicinanza nelle difficoltà, ma anche la tensione per il bene comune. Ecco la formula per essere veri amici
Dante Alighieri, in uno dei suoi sonetti più celebri, parla della sua amicizia con Guido Cavalcanti e Lapo Gianni:
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio; sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’l disio.
Guido Cavalcanti e Lapo Gianni erano due poeti accomunati dalla stessa sensibilità di Dante e appartenenti al gruppo degli stilnovisti. Quello di Dante è una sorta di sogno ad occhi aperti: desidera trovarsi, come per magia, su un vascello, e vagare per il mare insieme ai suoi due cari compagni. Una sorta di crociera ante litteram? In realtà i critici spiegano che in questi versi Dante farebbe riferimento alla magica navicella di mago Merlino, più volte citata nei racconti del ciclo bretone, che ha per protagonisti re Artù e i cavalieri della tavola rotonda. La sostanza però è la stessa: passare del buon tempo con persone a cui si vuole bene, in una condizione di distacco dal quotidiano e da tutte le sue fatiche. Fatiche che, come tempeste, possono portarci a sbandare, a perdere la rotta. Ciò però non avviene su questo vasel incantato: nessuna fortuna (cioè fortunale, tempesta) e nessun tempo rio (cioè avverso) può disturbare la magica navigazione.
Dante indica in questi versi uno degli elementi chiave della vera amicizia: vivere sempre in un talento, cioè in un unico desiderio, desiderando ancor più di stare insieme. L’amicizia è una dimensione preziosa dell’esistenza. Gli amici veri non sono molti: Dante ne cita due. È questa una navigazione intima, non una festa oceanica. Questi amici sono degli eletti: sono accomunati dallo stesso desiderio, dallo stesso sentire profondo. Non significa pensarla allo stesso modo su tutto, ma desiderare la presenza dell’altro, il confronto con l’altro e, di fondo, avere lo stesso orientamento esistenziale, la stessa sensibilità per ciò che davvero conta.
Penso a diversi miei amici: con alcuni condivido valori, fede, ideali; altri non potrebbero essere più diversi da me. Con loro mi capita di discutere anche animatamente. Eppure c’è qualcosa che ci accomuna profondamente, quello che Dante chiama talento: un’apertura alla vita; un desiderio, pur con tutti i nostri limiti, di lasciare un segno positivo sul mondo che ci circonda. Uno i questi amici, che la pensa in modo diametralmente opposto da me sulla fede, sulla filosofia, sulla visione dell’esistenza, mi ha detto di recente una frase bellissima: « Mi piace impegnarmi per gli altri perché sono stato fortunato e ho avuto la possibilità di fare tutto ciò che desideravo nella mia vita. Ora voglio restituire qualcosa alla comunità». Ecco il talento profondo, il legame che unisce: il desiderio di donare qualcosa di sé. Dante e i suoi amici poeti donavano bellezza; ciascuno di noi, nel suo campo, può fare lo stesso, con i suoi interessi e la sua sensibilità.
Il sonetto di Dante continua poi citando le donne amate dai tre poeti. Nel viaggio ideale della navicella, il poeta vorrebbe che anche loro fossero presenti:
E monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch’è sul numer de le trenta con noi ponesse il buono incantatore: e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuna di lor fosse contenta, sì come i’ credo che saremmo noi.
Che bello se mago Merlino ponesse sul vascello anche Giovanna e Alagia (monna Vanna e monna Lagia), le donne amate da Guido e Lapo, oltre a quella ch’è sul numer de le trenta, la donna amata da Dante stesso! L’amicizia troverebbe così compimento, perché un’amicizia vera è apertura ad altre relazioni: è apertura al mondo, non chiusura su sé stessi. L’amicizia è libertà, non gelosia. L’affetto si moltiplica, non si divide. Un amico vero è felice delle nostre altre relazioni, è disposto ad accoglierle nella sua vita. Un amico vero ci lascia andare, non ci trattiene, e per noi c’è sempre. Un amico vero è qualcuno che, se non lo vediamo da molto, è felice è accogliente e ci chiede curioso di noi, non è uno che fa l’offeso e ci domanda diffidente perché non ci siamo fatti sentire e dove eravamo finiti. L’amicizia è la condivisione di un viaggio, appunto, non è l’obbligo di timbrare il cartellino. Perché l’amicizia vera è una forma di amore e l’amore si misura sulla libertà. Non a caso l’amore è proprio l’argomento di cui i tre amici e le tre donne desiderano ragionare: l’amore è l’essenza delle relazioni più profonde.
In questo sonetto il quadro è idilliaco, il dolore è lontano. Ma come agisce un amico nel momento della difficoltà? Dante lo racconta nel secondo canto della Commedia. Perso nella selva oscura del peccato, che può forse rappresentare quella crisi esistenziale con la quale chiunque, credente o non credente, si trova prima o poi a fare i conti, Dante viene soccorso dal poeta latino Virgilio. Questi gli rivela chi lo ha mandato: è proprio Beatrice, la donna amata da Dante. Beatrice si è rivolta a Virgilio con parole mirabili:
l’amico mio, e non de la ventura, ne la diserta piaggia è impedito sì nel cammin, che volt’è per paura.
Dante è definito amico, e non de la ventura. Un amico che resta per sempre, non un amico per convenienza. Un amico che non viene abbandonato, non uno che al cambiare delle circostanze non è più tale. Dante è impedito nel cammino e Beatrice, che ormai è diventata un’anima del paradiso, lascia il suo posto in cielo, scende fino all’inferno per inviare Virgilio. È un’immagine bellissima: l’amico non ti molla mai nelle difficoltà. Non è uno che ti dice cosa fare e poi non si sporca le mani: è uno che ti cammina al fianco, che non interrompe il suo viaggio con te, nemmeno nell’inferno.
Beatrice mi ricorda molto un sacerdote che ho avuto la fortuna di conoscere tempo fa. Un amico di quel sacerdote si era perduto, ne aveva combinate di cotte e di crude, non voleva ascoltare ragioni, si era ridotto a dormire in un parcheggio. Non sapendo più cosa fare, quel sacerdote una sera prese un sacco a pelo e andò a dormire al suo fianco. Si gelava, era inverno. Il sacerdote disse all’amico: «Siamo proprio due idioti a stare qui a dormire al gelo». L’amico replicò: « Ma di tutti gli idioti del mondo, uno solo è qui, sdraiato al mio fianco».
Quel sacerdote era così con tutti: non ti mollava, lo trovavi al tuo fianco quando più eri smarrito. A me capitò in uno dei giorni più brutti della mia vita: il citofono suonò e lui era lì, al mio fianco. Parlava con la sua presenza, prima di pontificare. Anni dopo scoprii che era l’unica persona a visitare in carcere e ad aiutare un uomo condannato per pedofilia. Il mio amico sacerdote si era spinto anche lì, nel fondo più nero, dalla persona più reietta e disprezzata, colpevole del reato più odioso che si possa immaginare. Ne parlammo: io ero molto critico nei suoi confronti. Lui mi disse: «Spesso le persone guardano la cenere, giudicano, condannano senza appello. Ma una scintilla sotto la cenere è sempre accesa. Dio guarda quella scintilla».
Parole che mi colpirono, che ancora porto con me. Un amico non è Dio, ma davvero può essere colui che sempre crede in quella scintilla.
L’amicizia, purtroppo, a volte deve fare i conti con il conflitto. Guido Cavalcanti, il Guido del sonetto citato in apertura, sarà esiliato da Firenze, sua città natale, nel giugno del 1300 per motivi politici. Guido apparteneva infatti alla fazione dei Guelfi Bianchi, che si scontrarono a più riprese con i Guelfi Neri. Per pacificare la città, i priori di Firenze decisero di esiliare i capi delle due fazioni, tra i quali, appunto, Guido. Tra i priori che stabilirono questa misura c’era anche Dante Alighieri. Dante esiliò dunque l’amico a cui aveva dedicato il sonetto di cui abbiamo appena parlato. Cavalcanti morì poco dopo di malaria. Nessuno può sapere cosa provò Dante nel prendere una decisione così drastica, né si può conoscere il dolore del poeta per la morte dell’amico. Ma questo provvedimento così drammatico ci ricorda che non esiste amicizia senza etica. L’amicizia non può far dimenticare il bene comune, non deve impedire di compiere la scelta giusta. Se l’amicizia è vera, l’amico non sarà mai un raccomandato, non riceverà mai ingiusti sconti o favoritismi. P er questo Marco Tullio Cicerone, autore latino conosciuto e citato da Dante, nel De amicitia afferma che la vera amicizia è possibile solo tra boni, cioè tra persone virtuose. L’amicizia non è semplice cameratismo, non è condivisione acritica di ogni esperienza. L’amico vero tira fuori il meglio di te, ti aiuta ad alzare lo sguardo. Ti resta fedele, ma accetta anche il dolore di perderti per salvaguardare un bene più grande.
Insegnante e scrittore
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