L’episodio di Ulisse e Polifemo nell’Odissea come metafora della violazione delle norme di convivenza
Quale atteggiamento far prevalere? Meglio vedere l’altro come un potenziale predone o come un fratello sventurato? L’altro è una minaccia, un fastidio, o potrei essere io stesso?
La vicenda di Ulisse e del Ciclope è assai nota. Ulisse, nel suo peregrinare di ritorno a Itaca, la sua patria, dopo la guerra di Troia, approda sull’isola dei Ciclopi, uomini smisurati. Sceso dalla barca con alcuni compagni in cerca di rifornimenti, si ritrova nella grotta dove il Ciclope Polifemo vive con le sue pecore. Polifemo però non c’è: è fuori con le greggi al pascolo. Ulisse e i suoi sono stupiti della sovrabbondanza di cibo presente: i graticci sono pieni di formaggi, vi sono recinti pieni zeppi di agnelli e capre. I compagni di Ulisse chiedono al capitano di prendere il cibo e tornare subito alla nave, per poi dileguarsi. Ma Ulisse non ascolta: vuole vedere il Ciclope. La scelta dell’eroe ha conseguenze tragiche: Polifemo si rivela un essere brutale, rinchiude Ulisse e i compagni nella sua grotta con un grande masso e comincia a divorarli a uno a uno ogni volta che deve nutrirsi. L’orrore e la disperazione sono al colmo, ma Ulisse, grazie alla sua astuzia, riesce a cavarsela.
Per prima cosa, Ulisse offre al ciclope del vino non diluito con acqua. Polifemo, che non conosce quella bevanda, ne è soggiogato: si ubriaca follemente, dice che premierà Ulisse per quel dono mangiandolo per ultimo, quindi si addormenta. Ulisse ne approfitta: con i compagni superstiti lo acceca con un palo dalla punta arroventata. Il Ciclope si sveglia di soprassalto, pazzo di rabbia e di dolore, determinato a non lasciare scampo a nessuno di coloro che lo hanno colpito. Ma l’astuzia di Ulisse ha ancora una volta la meglio: la mattina seguente l’eroe e i compagni fuggono appesi alla pancia delle pecore di Polifemo che, fermo sulla soglia per non permettere ai Greci di uscire, tocca solo i dorsi degli animali. Il Ciclope è descritto dall’autore dell’Odissea come un animale. Per i Greci ciò è degradante: nella loro cultura l’uomo, dotato di ragione, è superiore alle bestie brute, schiave dell’istinto. Il Ciclope di umano ha ben poco: Ulisse, raccontando questo episodio ai Feaci, specifica che non mangia pane, ma che divora gli uomini come fa un leone. Ci sono due aspetti in particolare che del Ciclope colpiscono e che lo escludono dalla società civile, relegandolo nel mondo della brutale barbarie.
Il primo è che il Ciclope vive da solo, in disparte, da empio: così dice il testo. Empio è chi non rispetta i valori fondamentali: stare insieme, vivere con gli altri, è per i Greci uno di questi. Secondo la filosofia greca l’uomo è un animale sociale, è fatto per vivere con i suoi simili, per collaborare con loro. Chi sta da solo, chi pensa solamente alle proprie esigenze, chi viola ogni regola per soddisfare i propri bisogni primari (il cannibalismo per nutrirsi) vive in contrasto con la natura umana ed è, appunto, empio. Non a caso, per sconfiggere il Ciclope solitario, Ulisse usa il vino, bevanda tipica dei simposi, i luoghi di ritrovo più caratteristici della società greca. Nei simposi ci si trovava per divertirsi, ma anche per discutere, per confrontarsi: il confronto rende umani, la condivisione con gli altri ci migliora. Nei simposi, inoltre, il vino veniva bevuto diluito, sempre: il Ciclope non conosce questa usanza e lo beve puro, rimanendone vittima. Il vino, bevanda della socialità per eccellenza, punisce chi si pone al di fuori di ogni regola sociale, scegliendo l’empia solitudine.
Trovo questa scena di grande potenza simbolica e di estrema attualità. Il Ciclope ci ricorda come, spesso, la solitudine possa generare violenza. Violenza, trasgressione e illegalità si combattono meglio con l’integrazione che con la repressione. Se una persona si sente accolta, ascoltata, parte di un tutto più grande, più facilmente avrà a cuore la società in cui vive, ne rispetterà le regole, capendo che non sono vuote imposizioni, ma utili strumenti per essere felici insieme. Il ripiegamento su sé stessi può invece avere conseguenze nefaste. Giovani e adolescenti soffrono sempre più di solitudine e tendono sempre più a isolarsi.
In parallelo, si verificano sempre più spesso condotte illegali e si sviluppano nuove dipendenze tra i giovanissimi. Giovanissimi abituati a fare massicciamente uso dello smartphone, uno strumento che tiene i loro occhi incollati allo schermo, distogliendoli dal mondo circostante e dagli altri, spingendoli a focalizzarsi solo sui loro interessi. Se giochi con gli altri in un cortile o in una piazza, sviluppi l’empatia e la capacità di gestire la frustrazione, impari ad accettare regole condivise. Se invece sei sempre ripiegato nel tuo mondo a portata di mano, rischi di non riuscire più a sentire l’altro. E se non senti gli altri, finisci per disinteressarti di loro, perché pensi non ti riguardino.
Spesso ho sentito amici e conoscenti lamentarsi di un egoismo sempre più diffuso, spesso ho sentito dire che il grande male è l’indifferenza. Io trovo che tutto questo sia collegato: siamo soli e guardiamo al nostro ombelico e ciò aumenta il rischio di diventare, come dice l’Odissea, empi. I latini indicavano la città con parole diverse: urbs, ovvero l’insieme degli edifici, e civitas, ovvero l’insieme dei cittadini. Troppo spesso desideriamo vivere in una urbs pulita, sostenibile, moderna, confortevole, ma dimentichiamo l’importanza della civitas. Solo la civitas garantisce una elevata qualità della vita. Si tratta di riscoprire questa dimensione, per non correre il rischio di vivere tra ciclopi, ognuno nel suo moderno antro, ognuno ripiegato sui propri bisogni e pronto a tutto pur di soddisfarli.
Il secondo aspetto per cui il ciclope si pone al di fuori dalla società civile è il non rispetto dell’ospitalità. Per i Greci, gli ospiti erano sacri a Zeus. Era ospite chi arrivava in visita, legato già da un vincolo di amicizia o parentela. Ma era ospite anche il viandante sconosciuto, il miserrimo profugo bisognoso di tutto. Gli ospiti dovevano essere accolti, perché nella mentalità greca l’uomo era in balia del Fato e il Fato è imperscrutabile, può cambiare le sorti di chiunque. Il ricco può diventare indigente, chi accoglie può egli stesso diventare bisognoso di accoglienza: proprio come accade a Ulisse, potente re di Itaca, che si ritrova, dopo mille peripezie, nudo e stremato sulla spiaggia dell’isola dei Feaci.
Il re del Feaci Alcinoo e la sua famiglia sono, in questo caso, un modello di ospitalità. Alcinoo non sa chi è Ulisse, ma prima ancora di chiederglielo lo fa lavare, vestire e lo chiama a mangiare al suo banchetto. Alcinoo dice ad Ulisse prima di tutto di rifocillarsi, solo dopo lo inviterà a rivelare la sua identità, a raccontare di sé. Ben diverso è l’atteggiamento del Ciclope. Appena scorge nel suo antro Ulisse e i suoi uomini non si domanda di cosa abbiano bisogno, ma li guarda con diffidenza e chiede immediatamente di dire chi sono: “Perché vagate sul mare? Siete forse predoni, giunti qui per danneggiarmi?”
Anche tutto questo è attualissimo. C’è chi di fronte al bisognoso che bussa alle nostre porte risponde con l’accoglienza e la cura e chi invece reagisce con paura, con diffidenza. C’è chi si chiede di cosa l’altro abbia bisogno e c’è chi invece chiede i documenti e i permessi. E c’è anche chi i documenti li ruba e li distrugge per rendere schiavo il bisognoso o per costringerlo a restare fuori dalla porta, per erigere rassicuranti barriere sui confini. Sia la diffidenza che la compassione sono comprensibili. Re Alcinoo e il Ciclope sono entrambi presenti nel nostro cuore. Servono saggezza ed equilibrio, non esistono soluzioni facili e preconfezionate. Si tratta però di chiedersi quale atteggiamento far prevalere: se è meglio vedere l’altro come un potenziale predone o come un fratello sventurato. L’altro è una minaccia, un fastidio, o l’altro potrei essere io stesso?
Ulisse, una volta sconfitto il Ciclope, afferma che egli è stato punito da Zeus per aver violato la xenia, l’ospitalità. La xenia, se rispettata, può portare doni duraturi, può creare una società nuova. C’è, in tal senso, un episodio assai significativo nell’Iliade. Sulla piana di Troia il greco Diomede e il troiano Glauco stanno aspramente combattendo: ciascuno vuole uccidere l’altro. Scoprono però, proprio nel furore della battaglia, di essere legati da antichi vincoli di ospitalità e a quel punto si fermano, si scambiano le armi, si stringono la mano, si giurano reciproca fedeltà. L’accoglienza dell’altro è un seme che porta frutto anche a lungo termine: genera un mondo nuovo, nuova vita, possibilità di futuro nei momenti più terribili.
Insegnante e scrittore
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