Da tempo ci siamo posti al di fuori della natura
e abbiamo concepito il luogo dove viviamo come qualcosa di separato dal resto della natura, contro la natura. Ecco perché da come immagineremo le nostre città nei prossimi anni dipenderà una parte consistente delle nostre possibilità di sopravvivenza. I temi che si intersecano in questa grande riflessione riguardano molteplici punti di vista, dai corsi d’acqua che – come ci ha detto lo zoologo Fenoglio qualche settimana fa – «usiamo e abusiamo», ai dibattiti sulla città dei quindici minuti, fino al ruolo dell’architettura nelle città. Ne abbiamo parlato con Stefano Mancuso, direttore scientifico della Fondazione per il Futuro delle Città e botanico presso l’Università di Firenze, nonché autore di numerosi libri, tra cui Fitopolis, la città vivente (Laterza 2023), che parla proprio di come le città del futuro dovranno trasformarsi in fitopolis, luoghi in cui il rapporto fra piante e animali si riavvicini al rapporto armonico che troviamo in natura.
Nel suo libro propone nuovi paradigmi per riformare le città e il vivere urbano. Da dove si parte?
«L’uscita del film di Coppola
Megalopolis in questi giorni è interessante, perché questa cosa che ha sempre affascinato urbanisti, registi, architetti – cioè l’idea che il pianeta sarebbe stato coperto da un’unica enorme città – è impossibile. Una città, per ottenere ciò di cui ha necessità e smaltire i rifiuti che produce, ha bisogno di un’enorme quantità di terra. Una città come Londra, per esempio, ha necessità di una quantità di terra più grande della Gran Bretagna; si chiama impronta ecologica, ed è stata misurata per tutte le città del mondo. Quella di Roma è superiore a quasi tutta Italia, dall’Emilia in giù. L’idea che il nostro pianeta sarà coperto da un’unica grande città è impossibile da realizzarsi, attualmente la quantità di terra coperta da centri urbani è intorno al 2%, ed è vicina al limite teorico».
Come accade questo fenomeno?
«Gli organismi viventi sono tutti efficienti, quando entra qualcosa, viene quasi completamente riciclata. Le città come sono oggi, invece, sono metabolicamente inefficienti, richiedono materiale in ingresso che utilizzano in quantità minuscole e scartano. La città è come un mostro che vive sulle colline dei propri rifiuti».
Come si può immaginare di trasformare la città da un punto di vista vegetale?
«Dovremmo costruire città in cui i vari elementi fondamentali della vita e dell’organismo si possano ritrovare sparsi sull’intera superficie. Questa è anche parte dell’idea alla base della città dei 15 minuti, cioè avere a disposizione tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma secondo un’organizzazione vegetale».
Quali sono oggi i problemi più cocenti della città?
«Il raffreddamento e la mobilità. In città d’estate si calcolano circa 6-8 gradi in più nelle ore più calde, rispetto agli ambienti rurali circostanti; non vederlo comincia a diventare pericoloso. A luglio del 2023 è stato pubblicato un lavoro su “Nature” che spiegava come le temperature dell’estate 2022 avessero causato più di 61mila morti in Europa, di cui 18mila solo in Italia».
Come possiamo fare per raffreddare le città?
«Bisogna coprire le città di alberi, perché hanno un effetto come quello di un condizionatore d’aria. Il tema non è che rinfrescano, l’ombra è solo una parte irrilevante. Il vero motivo è che gli alberi traspirano acqua, e questa traspirazione assorbe il calore. È chiaro che quando parliamo di raffreddare le città il numero di alberi è alto. E sorge una domanda: dove li mettiamo? Come con ogni altra cosa: si fa spazio. In città tra edifici, strade, parcheggi, i luoghi asfaltati vanno dal 30% delle città europee a oltre il 45% di quelle americane; bisogna pensare di disfarci di alcune strade e al loro posto mettere enormi quantità di alberi».
Non è utopistico?
«No, è solo questione di buon senso, basti pensare a piazze che fino a 30 anni fa erano parcheggi, come Piazza del Popolo a Roma o Piazza del Plebiscito a Napoli; quando le chiusero alle auto sembrava un’utopia. Barcellona sta già lavorando in questo senso: l’ex sindaca Ada Colau Ballano ha chiuso una strada lunga, ha tolto l’asfalto e l’ha ricoperta di alberi; all’inizio ci sono state proteste, ma dopo qualche mese tutti volevano stare su quella via, il prezzo delle case è aumentato e i commercianti volevano aprire negozi, perché era diventato un luogo di ritrovo per le persone».
L’architettura che ruolo gioca in tutto questo?
«Che l’architettura si sarebbe dovuta rifare ai principi della biologia studiando la città come un essere vivente è una cosa che sappiamo da tanto, già Le Corbusier parlava di città come entità biologiche, ma sono sempre rimaste enunciazioni che non hanno avuto seguito. In realtà le città studiate e prodotte, a oggi, sono ancora frutto dell’idea degli architetti, sono il segno degli urbanisti, basti pensare alle città che stanno costruendo in Cina. È lì che dobbiamo guardare, dove nascono città completamente nuove per milioni di abitanti, perfettamente disegnate e soprattutto realizzate in maniera che la natura non abbia spazio, tranne dove l’ha sempre avuto, cioè qualche viale, alcuni giardini, insomma presenze residuali e molto spesso solo di carattere estetico».
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