Parlare di speranza guardando a una vita con dei limiti può sembrare difficile.
A volte si pensa che la persona con disabilità abbia un destino annunciato e irreversibile. Eppure anche in un corpo limitato e fragile la vita può assumere tante strade e riempirsi fino all’inverosimile.
Il mio pensiero va a tanti dei nostri ragazzi ospiti dell’Istituto Serafico di Assisi, con disabilità gravissime e patologie degenerative. Penso a Giovanni, tetraplegico, immobile nella sua carrozzina, che è sostenuto nelle funzioni alimentari da una peg. Giovanni comunica con noi con il linguaggio degli occhi e attraverso la bocca che, pur non avendo la capacità di esprimere parole, si accende in sorrisi o a volte in smorfie di disapprovazione.
Giovanni, nel laboratorio di ceramica, con un ausilio per la mano destra che abbiamo realizzato proprio per lui, riesce a impugnare un contenitore di colore e a farlo cadere sulla ceramica che gira su un tornio. Decide lui i colori da usare, ce li indica con gli occhi. Giovanni decora le nostre ceramiche in modo straordinario.
Giovanni ama la musica e partecipa attivamente al laboratorio musicale. È felice. Certo, la sua felicità la costruiamo insieme, giorno dopo giorno, in un percorso che guarda alla persona, ai suoi interessi e ai suoi bisogni relazionali, più che ai suoi limiti. La cultura dominante, invece, sembra rifiutare l’idea della fragilità e della non autosufficienza, come se l’aver bisogno di qualcuno per realizzare la propria vita scalfisca in qualche modo la possibilità di realizzazione e di felicità.
Si comprende questa deriva individualista anche esaminando le proposte di legge sulla morte volontaria medicalmente assistita nelle quali si introduce il concetto di dignità personale nelle fasi terminali della vita, quasi ad aprire a un interrogativo sul fatto che sia ancora vita quella vissuta da una persona priva di alcune funzioni vitali. È questo il terreno che apre il diritto alla morte.
Ma vivendo accanto alle persone con disabilità gravissima noi sappiamo bene che anche in un corpo immobile, prigioniero del silenzio, del buio, privo del linguaggio e dell’autonomia della gestione di sé, c’è una vita potenzialmente piena, a condizione che si accetti la presenza di un compagno di viaggio che sappia all’occorrenza colmare i limiti prestando i suoi occhi, le sue mani, le sue gambe. La dignità va rispettata e coltivata ogni giorno.
Capita a volte di imbattersi in parole e atteggiamenti altrui capaci di farci sprofondare nella più autentica disperazione. Penso a quelle volte – e non sono poche – che il nostro sistema socio sanitario nega l’autorizzazione a progetti individuali di riabilitazione e di assistenza sul presupposto che la persona interessata non ne avrebbe alcun miglioramento. In genere queste situazioni si verificano a causa delle scarse risorse pubbliche, ma la motivazione formale che si sentono dire tanti genitori è sempre la stessa: “Suo figlio non può migliorare”. Queste risposte, unite alla burocratizzazione del prendersi cura, sono autentiche minacce alla speranza e alla cultura per la vita. Accanto alle persone con disabilità impariamo che la speranza non è legata a una meta da raggiungere o ai successi da conseguire. La speranza è nella vita che sa trasformarsi in un cammino che a mano a mano dischiude il senso e la grandezza del camminare.
Se guardiamo alla condizione di disabilità con gli occhi del sistema di assistenza e di cura la visione rischierebbe di essere alquanto distorta e ci porterebbe al rifiuto radicale delle innumerevoli possibilità che possono aprirsi nella vita di ogni persona. Anche se la scienza riabilitativa, la ricerca e le innovazioni tecnologiche ci sorprendono ogni giorno e spalancano nuove porte all’autonomia e al benessere delle persone, il nostro sistema socio assistenziale è molto rigido: se non puoi guarire sei considerato in molti casi incurabile. Questa è la deduzione illogica che chiude ogni porta alla speranza e alla vita stessa. È la risposta di chi vede solo ciò che non si è più in grado di fare rispetto a ciò che è possibile realizzare, magari con qualcuno accanto; perché la speranza è tutta racchiusa in quel “noi” in grado di aprire nuove strade da percorrere.
È chiaro che una condizione di disabilità, a meno che sia transitoria, non regredisce. Ma è altrettanto chiaro che la cura e il prendersi cura sono un viaggio continuo che può non avere come traguardo la guarigione, ma quelle piccole conquiste di libertà che portano la persona a vivere la vita che sceglie di vivere in tutte le dimensioni dell’esistenza. Penso agli affetti, al lavoro, alla cultura, allo sport e a tutti gli ambiti in cui svolgere la propria personalità indipendentemente dai limiti che la condizione di disabilità ci consegna. Le strade di realizzazione e di felicità seguono la via della relazione che può sopperire alle mancanze di capacità dovute alla condizione di disabilità e che ci aiutano a esprimere le nostre risorse. In fondo, la disperazione non è la condizione di chi non vede nulla davanti a sé ma di chi non attende nessuno.
Le persone con disabilità ci insegnano che la vera condizione di esistenza e di libertà dell’uomo è l’apertura all’altro. È in questa condizione che la speranza si alimenta giorno dopo giorno, mentre sarebbe soffocata da una prospettiva egoistica e da un io solitario se si chiudesse totalmente ed esclusivamente a fini individuali.
La condizione di disabilità può certamente limitare anche gravemente le funzionalità del corpo: la nostra realizzazione non è però nel quanto possiamo fare ma in ciò che siamo.
Accanto alle persone con disabilità scopriamo che la speranza non è semplice desiderio o un “vorrei che”, ma è il volto che entra nella mia vita e mi accompagna. La speranza è nelle mani che vestono, sostengono, curano e colmano i miei limiti. La speranza è nella fiducia che sappiamo offrire a chi ci tende una mano e nella responsabilità che ciascuno di noi avverte per la vita dell’altro.
Presidente dell’Istituto Serafico di Assisi
© RIPRODUZIONE RISERVATA