Cosa spinse dei sapienti a mettersi in viaggio se non il bisogno di credere che qualcosa di reale e umano stesse per nascere?
Matteo 2, 11: « Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo” ». Per concludere il nostro viaggio cosmico riprendiamo il viaggio più affascinante. Quello dei Magi. Giunsero da lontano, cavalcando non solo l’orizzonte ma anche la possibilità che fosse tutto un abbaglio, ed era questa forse la cosa più umana: sapere che si poteva sbagliare, che forse quella stella non indicava nulla e che, nel mezzo del deserto, sotto la Luna e davanti al fumo dei fuochi che si spegnevano nella sabbia, si stava seguendo un’illusione. I Magi studiavano le congiunzioni, i transiti, i moti retrogradi. Oggi si direbbe che si occupavano di astronomia osservativa, ma allora era tutto mescolato: la scienza e il mito, la logica e la paura. Osservavano il cielo non per domarlo, ma per tentare di comprenderlo, e nel comprendere speravano forse di decifrare il proprio destino. Era il 7 a.C., forse l’anno 6, poco importa: l’umanità non era ancora arrivata a calcolare il redshift delle galassie, ma amava guardare in alto. Allora una rara congiunzione tra Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci – evento che capita ogni circa 800 anni – poteva sembrare un segno
Dei Magi sappiamo pochissimo, ma quello che sappiamo è sufficiente per mettere la nostra storia nella loro, la nostra sete di senso nel loro peregrinare per i deserti di terra e gli oceani di cielo. I Magi sono lo straordinario che permette di rendere ordinario un atteggiamento, un modo di essere e di stare. La peculiarità della storia non la rende unica ed irripetibile, al contrario essa è ripetuta ogni anno per dire che è dono fatto per chiunque. Sono accanto a Giuseppe e Maria, Simeone ed Anna, i pastori e gli angeli. Tu ed io. Continuarono a seguire quella che la Scrittura chiama stella, una luce che probabilmente era una somma di più fenomeni celesti – forse la congiunzione di Giove-Saturno – o forse un’esplosione di nova registrata nel 5 a.C. in Cina – e ciò che colpisce non è tanto la correttezza scientifica della loro osservazione, quanto la tenacia con cui la investirono di senso. Non fu solo un viaggio geografico, da oriente verso occidente, ma uno scollamento dalla propria condizione: perché cosa spinge dei sapienti, tre o duecento, a lasciare le proprie biblioteche, i propri strumenti, i loro manoscritti per affrontare sabbie e scogliere, se non il bisogno radicale di credere che qualcosa – qualcosa di reale, umano, tangibile – stesse per nascere?
E forse oggi, che abbiamo il James Webb Telescope a scrutare esopianeti a miliardi di chilometri, o il Vera Rubin a mappare tutto il cosmo conosciuto, ci manca proprio quella fame di significato. I Magi sapevano calcolare le effemeridi, e nel cuore della notte, mentre gli animali sbuffavano e il vento alzava turbini di polvere, ricontrollavano i dati: la posizione delle stelle fisse, l’inclinazione dell’eclittica, il moto apparente di Giove. Ma sapevano anche che tutto questo non bastava, e allora probabilmente pregavano. Pregavano con la testa rivolta al cielo, come se le leggi fisiche avessero bisogno d’intercessione divina per confermarsi. È così che l’essere umano vive da sempre: a cavallo tra ciò che sa e ciò che spera. Le sabbie scivolavano sotto i cammelli, le notti si allungavano e il respiro diventava più denso. Camminavano tra costellazioni che oggi portano nomi latini, ma che allora erano racconti sospesi: Cassiopea la vanitosa, Andromeda la vittima, Perseo il salvatore.
Nessuno aveva certezze assolute, eppure ognuno si aggrappava all’idea che quell’evento raro – quella singolarità nel cielo – coincidesse con un’irruzione del divino. E oggi che si parla di fluttuazioni quantistiche e di materia oscura, forse non siamo poi così lontani da quell’idea. Anche oggi, tra modelli computazionali e simulazioni, restiamo Magi: in marcia verso un evento che forse non esiste, ma che ci permette di esistere. I loro nomi – Melchiorre, Baldassarre, Gaspare – furono aggiunti molto dopo, quando serviva dare un volto a quel pellegrinaggio, come a dire che la conoscenza, per essere vera, ha bisogno di incarnarsi. Non bastano i numeri, le teorie, i telescopi: occorrono persone che ci credano, che mettano il proprio corpo in cammino. In un tempo in cui non esistevano coordinate GPS, percorsero deserti e colline, affidandosi all’astrolabio e al cuore, e tutto questo per incontrare qualcosa o qualcuno che non avrebbero potuto misurare. Perché un neonato non si quantifica, non si verifica sperimentalmente. Non si calcola l’amore, né la profezia. Eppure, anche in quel gesto – inginocchiarsi davanti a un bambino – c’era un riconoscimento profondo: l’universo intero, con i suoi 13,8 miliardi di anni, le sue galassie che si allontanano, le sue leggi e le sue entropie, aveva senso solo se portava qui, sulla Terra, in una grotta, il respiro di un essere fragile. Quella era la verità dei Magi, e da allora non è cambiata. Anche oggi i fisici costruiscono acceleratori di particelle per ricreare le condizioni del primo istante dopo il tempo zero, ma sempre con lo stesso intento: capire da dove veniamo e se vale la pena restare. E forse i Magi, nel fondo delle loro mappe celesti, già sospettavano che l’universo non fosse infinito, ma finito ed in espansione, come un pensiero che si fa largo nella coscienza. Intuirono anche che c’è un limite alla misura, un punto oltre il quale la verità si mostra solo al cuore.
Per questo portarono doni: oro, incenso, mirra. Materia. Offrirono il concreto a ciò che è eterno. E nella loro offerta c’era il riconoscimento di qualcosa di più grande che sfugge a ogni teoria. La scienza non è mai bastata, né basterà. La materia è formata da atomi, gli atomi da quark e leptoni, i quark forse da stringhe, ma nessuna teoria delle stringhe potrà spiegare perché alcuni uomini attraversano il mondo per inginocchiarsi davanti a un bambino. Questa è la tensione dell’uomo: che la sua fame di sapere non è mai dissociata dalla fame di senso. I Magi erano vecchi, secondo la leggenda, ma forse erano solo uomini stanchi del sapere che non salva. Cercavano qualcosa che spiegasse anche la morte, che è la vera ossessione della conoscenza. In fondo, ogni osservazione è un tentativo di sottrarre un pezzetto di universo all’oblio. Anche oggi, ogni volta che inviamo una sonda verso l’esterno – Voyager, Parker, New Horizons – compiamo lo stesso gesto: un’offerta. E quando i Magi tornarono, non scrissero trattati. Nessun documento ufficiale. Nessuna relazione scientifica. Solo silenzio. Come se sapessero che certe verità non si verbalizzano. Rientrarono per altra via, dice il testo, e forse non fu solo una deviazione geografica ma esistenziale.
Da quel momento, anche osservare il cielo non fu più lo stesso. Sapevano che ogni dato può essere letto in mille modi, ma solo chi ha camminato, sudato, tremato e pregato, sa riconoscere la verità quando appare. Per questo la loro storia sopravvive: perché è il paradigma di ogni ricerca umana, dove si mescolano il rigore del calcolo e la follia della fede. I Magi non trovarono una teoria, ma una presenza. E da allora, ogni scienziato, ogni poeta, ogni sognatore, ha in sé qualcosa di loro. Nelle immagini del telescopio spaziale, tra le nebulose a emissione e le nane bianche, nei diagrammi di Hertzsprung-Russell, nei modelli cosmologici, nella spettroscopia a banda larga, c’è ancora il desiderio di trovare una stella. Una sola. Che valga il viaggio. Sotto un cielo che non smette di sconfinare affinché ognuno, contemplandolo, possa sentirsi figlio nel Figlio. Possa dire con il naso all’insù, Abbà, Padre. Gioendo con le stelle, che dalle loro vedette, brillano. In alto il cuore.
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