L’attaccamento è rovinoso, ed è il tuo nemico. Chi si forma un legame è perduto
Philip Roth, L’animale morente
«Vedendo che era davvero decisa ad andare con lei, Noemi smise di parlarle» (Rt 1,18). Rut aveva appena pronunciato la sua dichiarazione di fedeltà incondizionale a Noemi, e questa non reagisce, anzi sembra quasi infastidita da quella ostinazione (“smise di parlarle”). Chi ha la vocazione a seguire Noemi è Rut, non Noemi a stare con Rut. È Rut che vede in quel rapporto fedele il proprio posto al mondo, non Noemi.
Non è raro ritrovare nelle vocazioni umane questi assetti asimmetrici, questa reciprocità imperfetta. Qualcuno, qualcuna, sente chiaramente una vocazione, legge il proprio nome nella sequela di una persona, di una comunità, di un carisma. Lascia tutto, parte, piange, arriva. E lì, giunto nella terra promessa, si ritrova come Abramo in una terra straniera, ospite non-residente e non-gradito dagli abitanti. E qualche volta la persona dalla quale ci siamo sentiti chiamati sembra quasi disturbata dal vederci attorno – o, quantomeno, così ci appare. Queste cose capitano (e possono anche durare molti mesi e anni) perché, semplicemente, le voci che ci chiamano sono più grandi delle persone che le incarnano. Nessun carismatico è il carisma: gli dà voce, volto e carni, ma è diverso ed è più piccolo. Le persone hanno limiti, fanno errori e peccati; i nostri ideali no, sono puri e perfetti. Partiamo inseguendo un ideale e ci ritroviamo, inevitabilmente, a seguire persone, e quindi i loro limiti e i loro peccati. Le vocazioni non vanno a male se, e fino a quando, riescono a camminare senza farsi bloccare dai limiti e dai peccati che solo il cammino ci svela (non la prima vocazione).
Il momento decisivo nella vocazione di Rut fu affrontare il silenzio della strada, elaborare le non-parole di Noemi, accettare il suo essere di troppo, che continuerà anche arrivando a Betlemme, quando nei dialoghi di Noemi con le donne Rut sembra invisibile, e incapace di portare consolazione e gioia a Noemi. «Esse continuarono il viaggio, finché giunsero a Betlemme. Quando giunsero a Betlemme, tutta la città fu in subbuglio per causa loro, e le donne dicevano: “Ma questa è Noemi!?”» (1,19). Noemi torna nella sua città, dopo dieci anni da quando era partita con suo marito e i suoi due figli maschi. Le tradizioni rabbiniche hanno interpretato in molti modi questo “subbuglio” della città (la Bibbia è ancora viva grazie alle sue molte interpretazioni delle parole scritte e non scritte). Il Midrash Rabbah aggiunge che nel giorno del ritorno di Noemi si stava svolgendo il funerale della moglie di Boaz, il futuro “riscattatore” di Rut, e «tutto Israele si radunò per renderle omaggio».
Il testo ci mostra ancora un ambiente tutto al femminile: solo le donne parlano – “Ma quella è Noemi?!”. È immensa la capacità della grande letteratura di portarci nei luoghi di ieri, trasportarci nella piazza di Betlemme, farci sentire l’odore della polvere, vedere le donne tra la tenda e l’uscio a sussurrarsi l’un l’altra quei passaparola sottovoce tipici delle donne di ogni tempo e cultura: “Ma quella donna è Noemi?!”. E poi magari aggiungere: “Oddio, com’è invecchiata!”, “Era così bella quando partì!”, “Non l’avrei riconosciuta”. Parole sempre dolorose per tutti, soprattutto per le donne, ancor di più quando la vecchiaia si avvicina e la giovinezza fugge via: «In passato era solita andare nella sua portantina, ora cammina a piedi scalzi, e tu dici: “Ma questa è Noemi”? In passato indossava vestiti di lana fine, mentre ora è vestita di stracci, e tu dici: “Ma questa è Noemi?”» (Midrash Rabbah, Parashah Gimel). Scene antiche, eterne, ancora le nostre scene. Si parte dietro una voce, quasi sempre una voce vera. Poi arriva la sventura, e si torna tra quegli stessi sussurri: “Come si è sciupata”, “Eppure era così bella da ragazza”, “Povera donna”… Si segue un marito, una moglie. Poi arriva la sventura, fuori o nel cuore, si torna a casa: “Ma questa è Noemi?”. Non è sempre cattiveria, è semplicemente la vita con la sua disciplina spietata, che si impara solo alla fine quando forse ormai non servirebbe più.
«Ella replicava: “Non chiamatemi più Noemi, chiamatemi Mara, perché l’Onnipotente mi ha tanto amareggiata!”» (1,20). Non chiamatemi “la dolce” (il significato del nome Noemi), ma Mara, “l’amareggiata”. Vuole cambiare nome. La Bibbia conosce bene i cambiamenti del nome. Ce ne ha raccontati alcuni memorabili che hanno segnato momenti decisivi, a partire da Abramo-Abrahamo fino a Saul-Paolo, passando per il grande combattimento dello Jabbok quando Giacobbe divenne Israele, ferito e benedetto dall’angelo (Gen 32). Ma questo nome nuovo è diverso, perché Noemi dalla sua lotta con Dio esce solo ferita, senza benedizione. Come Giobbe (cap. 27). È un cambiamento di nome simile a quello legato a un’altra madre di Israele, lungo la stessa strada per Betlemme: «Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere: anche questo è un figlio!”. Mentre esalava l’ultimo respiro, perché stava morendo, essa lo chiamò Ben-Oni [figlio del dolore], ma suo padre lo chiamò Beniamino [figlio della destra]. Così Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme» (Gn 35,16-19).
C’è, forse, qualcosa di femminile in questi diversi cambiamenti di nome. I nomi dei grandi personaggi della Bibbia sono cambiati da Dio, dopo un incontro, una teofania, un nuovo compito, e in genere sono maschi. Con Noemi e Rachele il nome non lo cambia Dio, lo cambiano loro stesse, o quantomeno ci provano. Nella Bibbia il nome indica destino e vocazione. Esiste una speciale sintonia spirituale tra le donne e il divino, e il loro rapporto unico con la vita guadagna loro anche una sorta di (quasi) parità con il Dio della vita – Eva non è solo partner dell’Adam, è anche partner di Dio in un modo diverso e più radicale di suo marito. Le donne sono le creature che più somigliano a Dio nel donare la vita, e per questo ne sono grandi alleate in una intimità quasi interamente ignota a noi maschi. Ma questo partenariato con Dio le rende anche sue antagoniste. Il loro non è il combattimento corpo-a-corpo di Giacobbe-Israele, neanche quello di Giobbe; non amano la lotta nell’agone, né discutere su Dio con gli “amici”. Nelle donne la più grande mitezza convive con la più grande tenacia quando in gioco è il nome loro e il nome del figlio.
I loro combattimenti diversi non li troviamo quasi mai narrati nei libri sacri, qualche volta si incontrano nella letteratura e nella poesia, ma sono ben noti al cuore delle donne e a chi le ama e conosce. Sono quelli delle madri che lottano per non lasciar morire un figlio: sanno che non è loro, eppure combattono fino all’ultimo secondo, fino all’ultima energia, e dovendo scegliere tra salvare Dio e salvare un figlio salvano il figlio (e in questo salvano, a loro modo, anche Dio, perché sanno che il Dio vero non vuole la morte dei figli, e salvando il figlio salvano anche Dio dal diventare peggiore). Più che al Dio dei teologi le donne credono al Dio della vita, e a lui chiedono ragioni quando la vita non risponde più chiamandola per nome. È molto difficile ingannare una donna in materia di vita, e neanche Dio ci riesce. Così vogliono cambiare i loro nomi, sentono che non sono più veri. Molti uomini riescono a vivere per molto tempo con nomi finti, pochissime donne ci riescono, quasi nessuna ci riesce per lungo tempo, e prima o poi chiede di cambiarlo, e se non ci riesce si tiene anche il nome finto ma sa bene quale sarebbe il suo vero nome.
«Piena me n’ero andata, ma il Signore mi fa tornare vuota. Perché allora chiamarmi Noemi, se il Signore si è dichiarato contro di me e l’Onnipotente mi ha resa infelice?”» (1,21). Piena partii, vuota sono tornata.
Qui abbiamo un’immagine perfetta non solo del ciclo di Noemi. È una mirabile descrizione del ciclo della vita, del mestiere del diventare adulti. Si parte pieni – di compagni, beni, giovinezza, speranze di felicità -, si torna vuoti: soli, poveri, con l’orizzonte davanti accorciato e più basso, infelici. Quando questo ciclo giovinezza-adultità è vissuto nelle fede, Dio può diventare il responsabile di questo svuotamento. L’Onnipotente mi ha resa infelice. El-Shadday, l’Onnipotente, che la traduzione greca dei Settanta traduce con Pantocrator. Un nome di Dio che ci è molto caro, ma per capirlo nel contesto di Noemi non dobbiamo pensare allo splendido mosaico di Monreale, quanto piuttosto al Dio che ha schiantato Giobbe (l’appellativo El-Shadday nella Bibbia è usato poco, e quasi soltanto nel libro di Giobbe).
È tipico dell’inizio della fede adulta imputare a Dio la nostra nuova infelicità. Si ricordano i giorni felici, le grandi speranze, i sogni infiniti, soprattutto gli amici e i figli; poi ci si guarda dentro e si sente una solitudine infinita, una desolazione fuori e dentro il cuore. E lì nasce il desiderio del nuovo nome: Mara, perché il primo nome è vissuto come inganno e illusione. È il tempo della lotta con l’angelo, del combattimento con Dio, ognuno a modo suo, tutti necessari. Tanti ateismi nascono da delusioni che non sono riuscite a diventare combattimenti, o da combattimenti dai quali siamo usciti sfiniti o sconfitti. Non sempre si vince nelle lotte con Dio: ho conosciuto “atei” onesti che avevano semplicemente perso quella lotta, e sono fuggiti via da quel volto che li aveva schiantati – il Dio biblico è molto più complesso e ambivalente di come ci viene troppe volte raccontato. E se questa grande “notte di Dio” che ci avvolge ormai da tempo, fosse un lungo combattimento notturno con un angelo di El-Shadday che ci benedirà?
La Bibbia non ha voluto il nome nuovo di Noemi. Per tutto il resto del libro il suo nome non sarà Mara, sarà ancora Noemi “la dolce”. Ma l’autore ha voluto conservare per noi quel combattimento tra Noemi e Mara, forse per dirci che non siamo i padroni del nostro nome, che dobbiamo continuare a crederci anche quando ci appare finto e non ci risponde più. Uomini e donne insieme, anche se le donne ci ricordano il valore infinito della verità del nome, che è meglio un nome vero amaro di un nome dolce ma finto, che è preferibile una croce vera a una resurrezione inventata.
«Così dunque tornò Noemi con Rut, la moabita, sua nuora, venuta dai campi di Moab. Esse arrivarono a Betlemme quando si cominciava a mietere l’orzo» (1,22).
l.bruni@lumsa.it
© Riproduzione riservata