Le tesi spiazzanti dello psicologo Miselli e del biblista Carozza al seminario organizzato da due uffici Cei (persone disabili e famiglia)
Come si fa a parlare di affettività e sessualità a un bambino autistico? A quale età è corretto cominciare? Sono tra le domande, enorme e complesse, rimbalzate al seminario organizzato da due uffici pastorali della Cei, quello per le persone disabili, e quello per la famiglia, con l’obiettivo, come recitava il titolo, di “generare percorsi di reciprocità nella comunità cristiana”.
Ad accompagnare i genitori nelle dinamiche di una questione che spesso disorienta e imbarazza lo psicologo e psicoterapeuta Giovanni Miselli, della Fondazione Sospiro, che da tanti anni lavora con le famiglie in cui c’è un figlio alle prese con un problema dello spettro autistico, “Invitiamo i genitori a pensarci un attimo prima dell’adolescenza, quando ancora la questione sembra lontana. Perché poi il problema si presenta all’improvviso e tutto risulta più difficile”. Miselli ha riferito l’episodio di una mamma da lui invitata ad un incontro sul tema. La risposta: “No grazie. Per noi è presto, Giovanni (nome di fantasia) ha soltanto sei anni”. Qualche giorno dopo la donna trova un foglio con un disegno uscito dallo zainetto del bambino che frequenta la prima elementare. “Di cosa si tratta?”, chiede la mamma. “Nulla, nulla – risponde con evidente imbarazzo il piccolo nascondendo il disegno – me l’ha dato Sara (una compagna di classe)”. La donna non insiste ma la sera, quando il figlio dorme, va a controllare. La bambina scrive al compagno: “Ho fatto un sogno bellissimo, noi due ci diamo un appuntamento per darci un bacio in bocca”. La fresca risposta del ragazzino per nulla disorientato, ma con la tipica metodicità dei bambini autistici: “Va bene, ma invitami mercoledì o venerdì alle 18,15”. La mamma trasecola. Chi l’avrebbe mai detto, a sei anni? E il pensiero corre alla montagna da scalare nell’affrontare un tema così denso e coinvolgente. Sessualità? Affettività? Ma come potrà pensare Giovanni di avere una relazione affettiva, di sposarsi, di avere figli?
“Eppure – commenta lo psicologo – questa è un’occasione meravigliosa per parlare di affettività ad un bambino autistico. Difficile? Certamente. Ma non serve uno specialista competente, serve soprattutto una famiglia competente. Se rendiamo competente la famiglia aumenta il senso di auto-efficacia e la famiglia sta bene. “Grazie per aver aiutato noi a crescere e grazie perché in questo modo – dirà qualche mese dopo la mamma di Giovanni – ci hai permesso di conoscere meglio nostro figlio, di essere genitori migliori”.
In Italia il problema dell’autismo riguarda una persona su 77, per un totale di circa 600mila persone caratterizzate da quella che la scienza considera condizione e non patologia. E ogni persona, pur nel complesso di disturbi che possono assomigliarsi, presenta specificità che obbligano gli esperti a ridefinire ogni volta l’approccio.
Ciascuno deve abbattere una barriera diversa
Perché “spettro autistico”? La gamma delle diversità è enorme. C’è più diversità tra le persone all’interno di questo spettro che all’esterno, tra noi “normali”. L’unico aspetto che accomuna queste persone è la difficoltà di interazione sociale, o meglio le capacità di cogliere le barriere invisibili che determinano le interazioni sociali. Noi ci occupiamo di costruire per tutti opportunità di apprendimento”.
Quanto è difficile convivere con una persona autistica? “Con ciascuno occorre tirare fuori il meglio di sé, ma bisogna farlo h24 sette giorni su sette. Altrimenti risulta difficile comunicare, capirle, aiutarle. Proprio questo impegno senza sosta fa dire a tanti genitori: “Sarà così tutta la mia vita? Perché proprio a noi?”. Perché spesso, oltre alle difficoltà legate alle dinamiche familiari, scatta il giudizio sociale, ci si sente diversi e comincia il disaccordo all’interno della coppia”. I genitori con figli autistici – secondo i dati resi noti dallo specialista – hanno 40% di possibilità di vivere momenti di depressione e 70% di avere problemi di salute. “mettersi nei panni di queste persone, vuol dire tentare di comprenderle. Lo stress genitoriale dipende dalla gravità della disabilità, dalla capacità di intervento e dalla qualità dei servizi disponibili. Minore lo stress dei genitori, migliore il successo della terapia. Sappiamo molto delle mamme – sottolinea Miselli – meno dei padri perché non è facile coinvolgerli e spesso assumono un altro ruolo”. E i fratelli? “Spesso ricevono meno attenzioni e meno risorse economiche e possono avere difficoltà di costruirsi un’identità. Ecco perché vanno coinvolti e va loro offerta la possibilità di avere confronti con altri fratelli e sorelle che vivono lo stesso problema”: Importante quindi guardare alla qualità di vita dell’intero nucleo familiare. La qualità di vita di una famiglia cambierà rispetto al significato che ciascuno attribuisce a determinati valori <(il benessere materiale, la cultura, le relazioni, la spiritualità).
“Né lui ha peccato Né i suoi genitori”
Malattia e disabilità interrogano spesso in modo straziante, anche la sfera spirituale e suscitano domande che da sempre accompagnano la vita di fede. Perché Dio permette il dolore? C’è un disegno che costringe alcuni a sopportare determinate malattie invalidanti? Ne ha parlato, in apertura del seminario, don Gianni Carozza, docente di esegesi biblica. “Nell’antichità la malattia era intesa come punizione per un peccato commesso (ma anche durante il Covid ci sono state, purtroppo, letture in questo senso) e questa convinzione solleva Dio da ogni responsabilità, attribuendola all’uomo. “Hai peccato, ora sopporta la malattia”. Ma che Dio è questo giudice implacabile che distribuisce malattie come punizioni? E non ci soddisfa neppure la tesi secondo cui l’uomo è immerso in un disegno a cui non può sfuggire, accogliendo un disegno buono o malvagio secondo una volontà imperscrutabile. Ci sono tanti esempi di questa logica perversa da cui Gesù si stacca in modo detto, soprattutto preoccupato di rivelare il volto paterno di Dio. Ci sono tanti esempi di questa logica perversa da cui Gesù si stacca in modo netto, soprattutto preoccupato di rivelare il volto paterno di Dio padre. Nel Vangelo del cieco nato (Gv. 9,1-41) la risposta di Gesù alla domanda dei discepoli è nettissima: “Né lui né i suoi genitori hanno peccato, ma ciò è accaduto, affinchè siano manifestate in lui le opere di Dio”. Parole che, ha spiegato il biblista, vogliono liberarci dall’immagine di un Dio vendicativo “che nulla che fare con la scelta di inviare il figlio per amore”. Perché allora la sofferenza? Il peccato c’entra, perché ha aggiunto Carozza, non possiamo escludere le conseguenze dei nostri comportamenti negativi, sia a livello personale sia sociale, ma le parole di Giovanni vogliono dirci che Dio è sempre all’opera: “La vita – ha aggiunto – non è destinata a cadere nel nulla anche se fa esperienza della malattia, della disabilità, della sofferenza, della morte. Dio stesso ha messo nel nostro cuore questo desiderio di senso e lo fa arrivare fin là dove possiamo concepirlo.”
Rendere significativa anche la sofferenza
Ecco perché il cieco del vangelo di Giovanni è simbolo di ogni uomo incapace, per via del peccato, di vedere Dio: E allora Dio cambia la natura di questa persona che, come “cieco nato”, era fisiologicamente incapace di aprirsi alla luce. “Giovanni – ha detto ancora il biblista – ci accompagna alla scoperta della natura di Dio e ci mostra come la scoperta della Fede ci aumenti in umanità. Nel Vangelo del cieco nato ci sono paurosi di umanità da parte delle autorità religiose che mettono sotto accusa il disabile. Negare la realtà dei fatti è la sorte di coloro che non vogliono né vedere né capire, di quelli che riducono la religione a dogmi e precetti come “piccoli burocrati di Dio”. Ma Gesù sbugiarda questi falsi credenti: “Visto che dite, noi vediamo, il vostro peccato rimane”. Da qui il percorso suggerito dall’esegeta: fiducia, onestà, capacità di vincere il pregiudizio, sforzo di imparare a leggere con le categorie di fede anche il dolore per renderlo significativo.
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