Le voci dei giovani ancora credenti: la fede difficile di “quelli che restano”

di Paola Bignardi da Avvenire domenica 26 novembre 2023

Perché a fronte di una sensibilità comune alcuni se ne vanno e altri no?

Rispetto a chi ha lasciato la Chiesa colpisce la similitudine di attese, dubbi, critiche. A tenerli dentro la comunità ecclesiale c’è un senso di appartenenza

Ogni domenica Paola Bignardi ci sta conducendo ad avvicinare un mondo giovanile più chiacchierato che conosciuto, a partire dalla convinzione che occorra abbandonare gli stereotipi con cui abitualmente si guarda e si giudica una generazione piena di risorse, che si sente lasciata ai margini, impossibilitata a offrire al mondo in cui si affaccia il proprio originale apporto. Gli articoli si avvalgono delle indagini dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo e del lungo ascolto che i suoi ricercatori fanno di decine di adolescenti e giovani con interviste individuali, focus group, rilevazioni statistiche. La ricerca cui si fa particolare riferimento è quella in corso di pubblicazione e dedicata ai giovani che si sono allontanati dalla Chiesa, in un ideale confronto con coloro che sono rimasti. È frutto di un attento ascolto ed è, anche per il lettore, un invito a fare altrettanto. Le puntate precedenti sono su Avvenire.it.

La carrellata di riflessioni sui giovani nel loro rapporto con la fede, con la Chiesa, con la spiritualità è quasi giunta al termine. La maggior parte dell’analisi che è stata condotta ha riguardato i ragazzi e le ragazze che hanno preso le distanze dalla comunità cristiana e dalle forme strutturate dell’adesione a una visione credente della vita. Abbiamo ascoltato le loro opinioni, le loro storie, le loro inquietudini. E non si può dire che non ci abbiano lasciati pensosi. Qualcuno dei lettori degli articoli precedenti ha avanzato l’ipotesi che anche i giovani che non hanno lasciato la Chiesa abbiano delle posizioni molto vicine a quelle dei loro coetanei che se ne sono andati (uso per comodità questo linguaggio, che appare sempre più improprio, per rappresentare il processo interiore che i giovani stanno vivendo e che corrisponde al dato oggettivo del loro essere o non essere rimasti in contatto con la comunità cristiana e la sua cultura ecclesiale).

Hanno ben ragione i lettori che hanno colto un’affinità di posizioni e di opinioni tra i giovani che sono rimasti e quelli che se ne sono andati: ci sono molte identità di vedute a proposito delle domande sulla vita, delle obiezioni alla Chiesa e ai suoi insegnamenti, e sensibilità molto simili nella rappresentazione di Dio. Dunque perché, a fronte di una sensibilità comune, alcuni se ne vanno e altri restano? È la domanda che si sono posti anche i responsabili delle ricerche dell’Osservatorio Giovani Toniolo. A essa hanno cercato di rispondere, nello stile di questo Istituto di ricerca, attraverso l’ascolto. Così, dopo aver realizzato le cento interviste ai giovani che hanno lasciato la Chiesa, è stato realizzato un supplemento di indagine su quelli che sono rimasti, attraverso dodici focus group, in diverse parti d’Italia, coinvolgendo in questo caso 97 giovani della stessa età degli intervistati individualmente (18-30 anni). I risultati di questo confronto sono di grande interesse: significative le somiglianze, così come le differenze.

Le somiglianze…

Nelle puntate precedenti si sono viste le obiezioni che i giovani che se ne sono andati muovono alla Chiesa. Sono proprio quelle ragioni che spesso sono all’origine del loro allontanamento: il carattere ritenuto vecchio del suo stile di vita e soprattutto delle sue relazioni; il modo di prendere decisioni senza coinvolgimento; l’insegnamento sui temi morali e soprattutto quelli che riguardano la sessualità. Anche i giudizi dei giovani che sono rimasti nella Chiesa non sono meno severi. «I ragazzi, anche a livello parrocchiale – dice una ragazza che è rimasta –, vedono la Chiesa come troppo lontana, troppo diversa. La vedono solo piena di dettami, di dogmi, lontana da quello che è la loro vita quotidiana». Un’altra critica l’agire della Chiesa facendo presente che questa generazione è «completamente diversa; non le basta più il “tu devi”, va in ricerca del perché delle cose (…), si allontana perché si sente giudicata. La nostra è una Chiesa giudicante. Sbagli e ti puntano il dito… Non hanno il garbo di farti capire qual è stato l’errore, però ti additano». Per tutti, la Chiesa avrebbe bisogno di cambiare, di essere meno dogmatica: «Penso che la Chiesa non deve aver paura di mettere in discussione tutto ciò che nel corso della sua storia ha considerato sempre valido e sempre giusto. Solamente mettendosi in discussione e capendo che il mondo cambia, e che sulla base di questo bisogna riscoprirsi, riesce ad avere uno stile più aperto e più attento al prossimo».

Aver lasciato la Chiesa non significa aver abbandonato la fede; allontanarsi dalla fede non significa rinunciare a una propria spiritualità. Pur andandosene dalla comunità cristiana, molti continuano a sentirsi credenti, come nel caso di questo giovane: «A livello personale non sento di aver perso la fede, penso di aver conosciuto un Dio dell’amore che nonostante tutto non se n’è andato, quindi la mia fede, forse non nei canoni, continua a esserci. A mio modo, non con la preghiera classica, non come forse viene richiesto dalla fede cattolica, ma a mio modo non sento di aver perso la fede».

L’esperienza della fede è difficile per tutti, anche per quelli che sono rimasti: « Io ci sono rimasto in questa comunità per farmi tante domande e per mettermi tanto in discussione con me stesso».

…e le differenze

Non sono irrilevanti le diversità di sensibilità, di ragioni, di esperienza. Uno dei giovani che dichiara di essersi allontanato afferma che nella Chiesa «ci sono troppe risposte già date, rispetto alle domande che urgono; è necessario un annuncio di scoperta, di sorpresa». La differenza rispetto alle domande è un primo tratto che colpisce: coloro che sono rimasti hanno interrogativi meno elaborati; è come se avessero dovuto patire meno certe domande che i loro coetanei hanno dovuto affrontare con maggiore fatica, spesso senza trovare una risposta. La fede offre talvolta risposte a domande che non sono state poste, o che non hanno avuto tempo e modo di scavare la coscienza e di mettere alla prova la capacità di interrogarsi.

La seconda differenza riguarda la sensibilità verso la fede. Quella dei giovani che se ne sono andati dalla Chiesa è una fede solitaria: «Non mi ritengo ateo – dice un ventitreenne –, non mi ritengo una persona che non crede più in Dio, che non ha un lato spirituale; semplicemente non penso che quello sia il mio modo di pregare, di essere parte, di dimostrare il mio lato spirituale, perché è una cosa che io vivo più come individuale, relativa a me e non a un gruppo di persone». Questa esperienza di fede non solo non ha alle spalle una comunità ma soprattutto è vissuta senza passare attraverso la mediazione di essa; è una fede che non conosce la ricchezza e la fatica del confronto, della condivisione, dell’apertura interiore a fratelli e sorelle nella fede e il valore di un cammino comunitario.

Il senso di appartenenza a una comunità è un tratto che invece contraddistingue chi è rimasto e conosce una fede condivisa, con i legami, gli impegni comunitari, le relazioni che questo genera. Chi è rimasto parla della parrocchia come di qualcosa che gli appartiene perché il suo cammino personale si intreccia strettamente con quello comune: spesso purtroppo più con la vita pastorale che con quella spirituale. Chi è rimasto sovente ha un compito nella parrocchia: attraverso di esso – quasi sempre di carattere educativo – prende consistenza una relazione con la comunità, con la sua missione, le sue iniziative. Matura così il senso di un “noi” spesso molto forte, per cui la comunità è “la mia comunità”. Eppure anche qui sorge un interrogativo: davanti a un certo modo di ragionare sulla fede e sulla vita e i suoi interrogativi, quelli che sono rimasti lo hanno fatto per fede? È la fede della comunità ciò che li coinvolge e li convince, oppure il ruolo che in essa hanno?

L’appartenenza è sicuramente un dato prezioso e decisivo, purché il fondamento di essa sia il legame spirituale con la fede della Chiesa. Si ha l’impressione, ascoltando certi giovani impegnati in parrocchia, che ciò che vivono in termini operativi nella comunità sia più importante della fede stessa e possa esistere a prescindere da essa. Una giovane che si è allontanata dalla parrocchia manifesta un forte rimpianto per ciò che ha vissuto animando i grest estivi e facendo l’educatrice, esperienze che ora le sono precluse dal momento che si è allontanata dalla pratica religiosa. La stessa cosa si legge nella testimonianza di un giovane che ha un lungo servizio come animatore di un gruppo di ragazzi. Esperienze che dicono come per i giovani siano gratificanti alcune attività che si svolgono in parrocchia o in oratorio, a prescindere dalle loro convinzioni religiose. Vi è un legame con la comunità che può prescindere dalla fede della Chiesa e dalla visione della vita che in essa si professa.

Aggiungo un’ultima considerazione: nei giovani che hanno un’appartenenza associativa il senso di appartenenza alla comunità è molto più forte che negli altri e mostra i tratti di una maggiore elaborazione dei contenuti e delle ragioni di essi. È una considerazione importante, che dovrebbe indurre a ripensare al valore che nella pastorale ordinaria viene data alle realtà associative, ormai più temute che valorizzate. Ma questo è un altro tema! Giovani che se ne sono andati e giovani che sono rimasti; difficile stabilire il confine di sensibilità e di posizioni che spesso sfumano una nell’altra.

© RIPRODUZIONE RISERVATA  Avvenire_20231126 9

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