Le storie di Eugenio e di Stella. Soldi e privilegi, ma senza vero ascolto per l’uno. Fiducia e il poco di attenzione possibile per l’altra. A scuola e nella vita i risultati si vedono
Eugenio era un ragazzo brillante, intelligente e pieno di talenti, che però sprecava clamorosamente. C’era un lavoro di gruppo? Lui era quello che faceva perdere tempo agli altri. C’era la fila per andare in mensa o al bar della scuola? Lui la saltava. C’era qualcosa da studiare, un compito da svolgere? Lui non combinava nulla. Aveva una sfilza di voti negativi, una ricchissima collezione di ritardi e il libretto scolastico che era un’antologia di note. Ma per molti coetanei era un mito. Figlio di ricchissimi imprenditori, ostentava il suo benessere con una spavalderia clamorosa. I compagni, ridendo, affermavano che aveva un i Phone diverso per ogni giorno della settimana: battuta non così lontana dalla verità. Di certo, se usava il telefono in classe e un prof glielo ritirava, lui ne estraeva subito uno di riserva per continuare a farsi gli affari suoi sotto il banco.
Molte ragazze impazzivano per lui: « È bellissimo, è simpatico, è carismatico. È il top, prof!», dicevano. Lui cambiava una fidanzata al mese, con lo stesso ritmo con cui cambiava i cellulari. Sfruttava cose e persone come gli andava, con la logica dell’usa e getta. A scuola veniva con l’autista, che era anche la persona delegata a ritirare le sue pagelle, visto che i genitori, sempre in giro per l’Europa per lavoro, non potevano mai essere presenti alle riunioni. A metà della seconda superiore però il padre di Eugenio fu costretto a fare un’eccezione: dovetti convocarlo per il comportamento sempre più irrispettoso del figlio.
Venne a colloquio con un piglio sicuro di sé. Era un atletico cinquantenne, dal sorriso smagliante. Si sedette: «Allora, mio figlio? Ha visto, eh?», chiese, ammiccante. Mi domandai che cosa dovessi aver visto. Non azzardai risposte, lo lasciai proseguire. Lui continuò senza bisogno di chiederglielo: «Brillante, vero? E sempre allegro». «Certo. Brillantissimo. E in quanto ad allegria, non scherza affatto». «Ha preso da me. Anche io ero così alla sua età». Eccolo lì: il tipico genitore che vede il figlio come una sua emanazione. Il genitore per cui i successi del figlio sono i suoi successi e i fallimenti del figlio sono i suoi fallimenti. Il genitore che vede il figlio come un suo specchio. Il genitore che parla del figlio per parlare di sé. Situazione rischiosissima e soffocante, perché priva il ragazzo della cosa più importante: la libertà di fallire o di avere successo. Fallimenti suoi e solo suoi, successi suoi e solo suoi: tutte esperienze che fanno crescere.
Indugiai un attimo di troppo. Il padre di Eugenio mi incalzò, sornione: «Allora, che mi dice del ragazzo?». Non sapevo bene da dove partire. Usai un’immagine: «Eugenio mi sembra una Ferrari che, invece di correre nell’autodromo di Monza, gira in centro a un paese con il limite a trenta allora e i dossi». L’amichevole signore si irrigidì immediatamente: «Come, scusi?». Avevo osato criticare il figlio: lo aveva vissuto evidentemente come un attacco al suo onore. Mi spiegai: « Eugenio ha grandi potenzialità, ma le gioca molto male. Sta gettando via il suo tempo». Finse così bene di non capire che finii con il domandarmi se fosse sul serio a conoscenza della situazione di suo figlio. «In che senso?», chiese risentito, con il mento alto e lo sguardo altrove.
« Nel senso che…», iniziai a quel punto a riferire diversi episodi, a fare esempi concreti. Dissi che dovevamo aiutare Eugenio a prendersi le sue responsabilità, ad afferrare il timone della sua vita, a scegliere la strada che desiderava prendere, a cominciare a chiedersi chi volesse essere. Il padre di Eugenio taceva. Nessuna reazione, nessuna critica al rampollo di famiglia, nessuna ammissione. Poi si voltò verso di me, mi fissò, tornò a quel suo sorriso ammiccante: «Però in atletica è fortissimo». Pensavo di aver sentito male. «Sa che vince un sacco di gare? Negli ottocento metri è quasi imbattibile” aggiunse, tutto fiero. Incredibile. Aveva cambiato argomento con una immediatezza disarmante. Non gli piaceva ciò che gli stavo mostrando e aveva distolto lo sguardo come se niente fosse.
«Mi fa piacere», dissi. «Ma stavamo parlando di altro. Sono il suo insegnante, non il suo allenatore di atletica». Fu come se non mi avesse sentito: «Vince un sacco di gare, per cui il sabato sera, quando deve uscire con gli amici, gli do cento euro. Del resto, sa, sono ragazzi, hanno diritto di divertirsi». «Scusi se mi permetto, ma forse questo non aiuta». «Come?». «Forse qualche paletto in più potrebbe essere utile a Eugenio». Sembrò non aver capito. Divenne sospettoso, una punta provocatorio: «Sentiamo, lei cosa farebbe?».
«Non sono suo padre. Però forse cento euro tutti i sabati sera, a fronte di un atteggiamento tutt’altro che impegnato…». A quel punto il padre di Eugenio guardò l’orologio sbuffando, mi interruppe e scattò in piedi, aggressivo: «Scusi, ho da fare. Devo andare. E comunque voglio vedere lei quando avrà un figlio adolescente. Arrivederci». Mi piantò in asso e se ne andò, lasciandomi basito, dopo avermi provocato sulle mie capacità genitoriali per non mettere in discussione le sue.
Fu molto diverso il colloquio che ebbi tempo dopo con la mamma di Stella. Stella era una ragazza di prima superiore molto responsabile, impegnatissima nello studio e nel volontariato, affidabile come una persona adulta. In famiglia dava una mano nella gestione di quattro fratelli più piccoli di lei. Quando dissi a sua madre che Stella stava facendo un percorso molto positivo, la signora non trattenne le lacrime: «Lo so, professore. È bravissima. Ed è tutto merito suo, perché io per lei faccio pochissimo. Presa dagli altri figli, non ho molto tempo da dedicarle. Vorrei stare più tempo con lei, concederle molto di più di ciò che desidera. Ma non navighiamo nell’oro, eppure Stella meriterebbe ben altro… ». Questa mamma, una donna di una umiltà luminosa, aveva ben chiaro che sua figlia era altro da sé e aveva il coraggio di lasciarla andare, di riconoscerne l’autonomia.
Come piangeva quella madre, pianse anche Eugenio in quinta superiore. Era diventato un gigante palestrato, alto il doppio di me. Il nonno, a cui lui era molto legato, era appena mancato. Venne inaspettatamente a confidarsi e, con enorme sorpresa, vidi la sua corazza infrangersi: si mise a singhiozzare come un bambino. Provai a confortarlo: «Dai, Eugenio. Puoi contare su tante persone. Sui tuoi amici, sui tuoi genitori». Mi fissò furente. Usò parole di fuoco, spietate: «I miei genitori? Sta scherzando, prof? Quelli mi hanno sempre riempito di soldi e concesso ogni cosa, tranne le uniche di cui avevo bisogno: il loro affetto, il loro ascolto, la loro attenzione. E io non li perdonerò mai, quegli stronzi».
Stella invece, in un tema, usò ben altre parole nei confronti di sua madre: «Mia mamma è spesso di corsa, insegue sempre gli impegni dei miei fratelli. Ma, nonostante le difficoltà, so che lei c’è per me. Mi ha dato tutto ciò di cui avevo bisogno. Io mi fido di lei e lei si fida di me, mi lascia andare. Mia mamma non molla mai. Per me è un modello. Ho una enorme stima di lei e le voglio un bene immenso».
Molti intellettuali, nel corso della storia, hanno affermato che ricchezza e prosperità eccessive corrompono l’anima. Magari questa affermazione è troppo categorica. Ma forse, davvero, chi concede sempre tutto per sentirsi narcisisticamente un bravo genitore rischia di non ottenere nulla, chi invece si rende conto dei propri limiti, ma sa donare il poco che ha, ottiene tutto.
Insegnante e scrittore
Avvenire_20240206_A15_2 6 feb 24