Dentro le manifestazioni anche più ingovernabili e sguaiate di indisciplina c’è un messaggio che va ascoltato, un grido di solitudine o di sofferenza. Che per uscire attende la domanda giusta
«Ma a me non interessa». Rispondeva così. Ripeteva a raffica questa frase, con un fare tra lo strafottente e l’indifferente. Nulla lo scalfiva: a ogni domanda, a ogni invito a riflettere, la risposta era sempre la stessa. Nemmeno il sindaco, che mi ha raccontato questa storia, sapeva più che cosa dire. Tutto si era svolto in un Comune a due passi da Milano. Poco dopo capodanno un gruppo di adolescenti si era dato appuntamento in piazza. Non sapendo dove andare, erano entrati in oratorio, si erano appollaiati su una panchina. Non sapevano bene cosa fare, così uno di loro aveva tirato fuori dei petardi, residui del 31 dicembre. Era spuntato un accendino, era esploso il primo botto. Poi il secondo, poi il terzo.
Poi era spuntato il don, che era stato pure gentile: «Ciao ragazzi». Nessuna risposta, sguardi diffidenti. Ma il don non aveva mollato: «Qui siete sempre i benvenuti, lo sapete. Ma serve il rispetto reciproco». Gli sguardi si erano fatti torvi. «I bambini stanno facendo catechismo. Se scoppiate i petardi li disturbate. Per favore, evitate di farlo».
Nessuna replica. Il don aveva salutato e si era allontanato. Subito era esploso un nuovo petardo, tra le risatine del gruppo. Il don era tornato indietro: «Ve l’ho chiesto per favore. State dando fastidio ai bambini e alle catechiste».
Si era fatto avanti lui, il ragazzo: «Ma a me non interessa».
Il don era basito: «Mi dispiace per te se gli altri non ti interessano. Però il fatto che non ti interessi, non ti autorizza a farlo». «Ma a me non interessa».
«Quindi continuerai a scoppiare petardi?».
Il ragazzo lo aveva sfidato: «Sì. Appena lei se ne va ricomincio». «Allora devo chiederti di uscire dall’oratorio. Devo tutelare i bambini».
Il ragazzo aveva fatto spallucce e si era diretto al cancello. Gli altri lo avevano seguito. Erano usciti e non erano rientrati più. Al don era dispiaciuto, ma non poteva farci niente.
Il gruppo di adolescenti aveva vagato a zonzo per un po’, poi si era diretto alla piazza del Comune. E lì, ovviamente, i petardi erano spuntati di nuovo. Questa volta l’obiettivo era stata la facciata del Comune. Uno, scoppio, due scoppi: una finestra si era aperta e un paio di dipendenti si erano affacciati allarmati. «Che succede?». Gli adolescenti avevano ridacchiato anche questa volta, senza rispondere. «Smettetela! Stiamo lavorando».
«Ma a me non interessa!» aveva risposto il ragazzo.
«Sei proprio un maleducato!» gli era stato risposto. La finestra era stata chiusa. Pochi secondi dopo, sul davanzale era scoppiato un altro botto.
Il sindaco sentì il nuovo scoppio, notò il trambusto negli uffici, gli fu spiegato tutto. Uscì in piazza.
Trovò gli adolescenti ancora lì davanti alla facciata, intenti ad accendere un nuovo petardo. Un paio lo riconobbero: «Oh, raga, quello è il sindaco!». Nessuno arretrò di un passo. Il sindaco respirò profondamente. Sapeva benissimo che se si fosse arrabbiato, se i toni si fossero alzati, sarebbe probabilmente finita a urla e insulti e, in fin dei conti, non sarebbe cambiato niente. Per questo si avvicinò mantenendo la calma.
«Ciao. Potreste evitare di scoppiare i petardi, per favore?» chiese con cortesia.
Il ragazzo si fece avanti: «Scoppiare i petardi non è illegale» disse.
«Sì, ma non è neanche opportuno scoppiarli qui. Ci sono persone in questi uffici che stanno svolgendo il proprio lavoro. Non è gentile farli sobbalzare e disturbarli». «Ma a me non interessa» replicò il ragazzo.
Il sindaco non mollò: «Abiti anche tu qui a…?», e disse il nome della città.
«Sì». «Allora sappi che le persone che stai disturbando stanno lavorando per te. Stai danneggiando un po’ anche te stesso».
«Ma a me non interessa».
«Potreste andare a scoppiare i petardi altrove. Fuori città, dove non date fastidio a nessuno». «Il parco è troppo lontano. Non abbiamo voglia di andare fino a lì». «Ok. Stai mettendo la tua comodità prima del rispetto del lavoro altrui». «Ma a me non interessa».
Il sindaco cominciò a irrigidirsi: «Qui comunque non potete stare». «Ce lo ha detto anche il don, che ci ha cacciato dall’oratorio. Ma a me non interessa. Se ci caccia anche lei, andiamo nella via qui di fianco e ricominciamo a scoppiare i petardi lì».
«Ma no, dài. Se vi mettete in mezzo alle case e ai negozi date fastidio anche lì». «Ma a me non interessa». Il ragazzo continuava a rispondere, forse anche per l’orgoglio di non cedere di fronte ai compagni. Era sfuggente, inafferrabile. I l sindaco, allora, lo fissò negli occhi. «Continui a dire che a te non interessa. Ma perché non ti interessa?».
Silenzio. Questa volta il ragazzo non replicò, perché era la domanda giusta. Perché quando ci si ferma alle accuse, ai rimproveri, alle lamentele, all’elenco di come le cose dovrebbero essere, il dialogo è impossibile. Quando invece si pone la domanda giusta, tutto può cambiare.
«Allora? – insistette il sindaco –. Perché non ti interessa?».
Il ragazzo abbassò lo sguardo a terra. Rispose a bassa voce: tutta la spavalderia era scomparsa in un istante. «Perché a nessuno interessa di me», disse.
Un grido di aiuto.
Una richiesta scomposta di attenzione.
Il sindaco se ne rese subito conto: i petardi, il rumore, il disturbo, l’interruzione degli incontri di catechismo e del lavoro degli uffici erano proprio questo: un grido, sperando che qualcuno ascoltasse.
Il sindaco rimase senza parole.
Il ragazzo si voltò, si allontanò in silenzio; gli altri adolescenti lo seguirono. Dove andarono? Chissà. Vicino al Comune, quel pomeriggio, non esplosero altri petardi.
Quando il sindaco mi raccontò quell’episodio, disse parole illuminanti: «Reprimere e basta non serva a nulla. Bisogna ascoltare davvero per capire il disagio. È l’unico modo per provare a cercare insieme una strada che consenta di uscirne».
Aveva ragione. Certo, è necessario impedire ai ragazzi di nuocere a sé stessi e agli altri. Certo, bisogna a tutti costi tutelarli e tutelare chi è intorno a loro da comportamenti irresponsabili o dannosi. Ma questo è solo il primo passo. Quello successivo, quello decisivo, è domandarsi e domandare loro che cosa, con le loro parole e le loro azioni, stanno comunicando.
Ogni provocazione, anche la più sguaiata, è un messaggio. Tante volte noi adulti siamo infastiditi dal clamore della provocazione e pensiamo solo a stroncarla, illudendoci così di riportare un po’ di ordine. Ma l’ordine riportato con la forza è provvisorio, instabile. La via maestra è un’altra, molto più difficile: avere autocontrollo, gestire il nostro legittimo fastidio, provare a sospendere il giudizio e, senza filtri, dare spazio di parola a chi ci sta provocando, ascoltare davvero prima di arrivare alle conclusioni.
Non si tratta di giustificare tutte le azioni sbagliate, ma di provare a comprendere cosa spinge a farle, perché ogni ragazzo è un universo ed è molto di più delle azioni sbagliate che fa.
Forse dietro lo scoppio di un petardo scopriremo il desiderio di uno sguardo attento, di un po’ di affetto, di un abbraccio in cui perdersi, di un volto di cui fidarsi. Tutte cose che richiedono il tempo che spesso non abbiamo, ma che dobbiamo trovare, se vogliamo costruire futuro.
Insegnante e scrittore
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