Che cos’è la felicità? Una promessa (che sa attendere) nella ricerca

di Paola Muller da Avvenire mercoledì 13 agosto 25

Secondo Agostino, la filosofia è come una rotta che, in mezzo a una realtà spesso disordinata e dolorosa, ci conduce alla beatitudine

«Ogni uomo, chiunque egli sia, vuole essere felice. Non c’è alcuno che questo non voglia e che non lo voglia al di sopra di tutte le cose» (Discorso 306, 2.3). Nel cuore della filosofia di Agostino d’Ippona c’è un desiderio che accomuna tutti gli esseri umani: la felicità. Ma che cosa significa essere felici? È una questione che, per il pensatore africano, non riguarda solo la quiete del cuore o il benessere del corpo, ma la verità ultima dell’uomo e del suo destino. Per Agostino, la felicità è insieme la meta più ambita e il mistero più profondo. Non è semplice appagamento terreno, ma qualcosa che ha a che fare con l’ordine del cuore, la ricerca del vero, la comunione con Dio. E proprio per questo, oggi come allora, è una parola da riscoprire. Già nel suo La beata vita, scritto nel 386, Agostino descrive l’esistenza umana con un’immagine potente: quella del naufrago in balìa dei flutti. Gettati senza guida in un mare burrascoso – il mondo – gli uomini cercano disperatamente un approdo. La filosofia, se autentica, è come una rotta che può condurre al porto della felicità, ma pochi riescono a seguirla. Ed è Dio, alla fine, che muove le acque e guida i cuori erranti verso la riva.

In questa prima fase del suo pensiero, Agostino resta ancora debitore alla tradizione classica – stoica, platonica, ciceroniana – che identificava la felicità con la vita secondo ragione, nella moderazione e nella virtù. Ma fin da subito egli introduce una frattura decisiva: la vera felicità non è conquista umana, bensì dono di Dio. Chi è felice? «Chi possiede la verità», cioè Dio stesso, che è Sapienza e Misura suprema. Nessuna felicità è possibile senza Lui. I dialoghi giovanili, redatti da Agostino subito dopo la conversione e prima del battesimo, offrono una visione articolata. In essi si può distinguere una felicità in senso debole e una in senso forte. La prima, più accessibile, riguarda il vivere secondo misura: coltivare l’anima attraverso le arti liberali, la riflessione, la conoscenza di sé. È un primo passo, che conduce a una vita ordinata, razionale, e quindi serena. La seconda, invece, è la vera beatitudine, che consiste nel conoscere Dio e goderne, nel possedere il summus modus, la misura perfetta, l’unità del vero, del bene e del bello.

Agostino ammette che non tutti possono seguire il difficile cammino della filosofia: per questo, nel De ordine, propone anche una “seconda via” per raggiungere la felicità, accessibile ai semplici e ai poveri: la via della fede. La felicità, infatti, non è solo per pochi sapienti, ma per ogni essere umano che accolga la verità con cuore umile. Questa doppia via – ragione e fede – nella visione agostiniana non si oppone, ma si integra. La filosofia, se autentica, non contraddice la fede, ma la prepara, la accompagna, la illumina. Non si tratta di costruire un sistema autosufficiente, ma di aprirsi all’Assoluto. « La vera filosofia – scrive Agostino – è insegnare che esiste un solo Dio onnipotente e tri potente, Padre, Figlio e Spirito Santo” (L’ordine, II, 5.16). Per questo, la ricerca filosofica non è abbandonata, ma trasfigurata: la conoscenza dell’ordine del mondo, attraverso lo studio delle arti liberali, è un esercizio di elevazione spirituale. La logica, l’aritmetica, la musica, la geometria, diventano strumenti per cogliere il riflesso della Sapienza divina nell’universo. Ma è solo la scienza di Dio – e non solo quella dell’anima – a rendere felici in modo pieno.

Agostino si interroga anche sul rapporto tra felicità e realtà. Tutti gli esseri umani la desiderano, ma la realtà è spesso disordinata, dolorosa, confusa. Come conciliare l’anelito alla beatitudine con la presenza del male, del limite, della morte? Nel De ordine, il giovane Agostino tenta una risposta affascinante: tutto, anche ciò che sembra difettoso o sgradevole, ha un posto nell’ordine dell’universo. Persino gli errori, le devianze, le sofferenze, possono avere un senso all’interno di un disegno più grande. È un tentativo di teodicea che rimanda alla convinzione che la bellezza della creazione risiede nell’armonia delle sue parti, anche quelle che a uno sguardo parziale sembrano negative. Ma questa visione si accompagna a una consapevolezza drammatica: l’essere umano, da solo, non basta a se stesso. L’accesso alla felicità è segnato dal peccato, dal fallimento, dalla fragilità. E solo la grazia di Dio può redimere e salvare.

A partire dalle Quaestiones ad Simplicianum, e poi con maggior forza nel De civitate Dei, Agostino sposta il baricentro: la felicità non è più legata alla vita terrena, ma viene trasferita interamente nell’orizzonte escatologico. Dopo il peccato originale, l’umanità è una «massa dannata» e nessuno può salvarsi da solo. La felicità – ora lo afferma con forza – è frutto esclusivo della grazia, che Dio concede ad alcuni secondo disegni misteriosi. La filosofia, da sola, non salva. È la fede, dono gratuito, che apre alla salvezza e alla beatitudine. Una visione dura, a tratti vertiginosa, ma che nasce da una consapevolezza realistica: l’uomo non può bastare a se stesso. E tuttavia, proprio qui Agostino offre una via di speranza: la felicità non è negata, ma promessa. Non si ottiene con le sole forze umane, ma non per questo è inaccessibile: è la pienezza che Dio vuole donare a chi si apre alla sua chiamata.

Rileggere Agostino nel nostro presente significa confrontarsi con una parola che sembra sbiadita: felicità. Nel mondo della performance, dell’efficienza, della felicità misurata in like e risultati, cosa resta di una beatitudine che nasce dalla verità, dalla misura, dal dono? Agostino invita a riscoprire una felicità più profonda, non effimera, non illusoria. Non quella dell’assenza di problemi, ma quella della presenza del senso. Una felicità che sa stare nel tempo, nella fragilità, nella ricerca. Che non disprezza la realtà, ma ne coglie i segni. E che, soprattutto, sa attendere. Nel suo itinerario, il vescovo di Ippona ci mostra che la felicità non è «avere tutto », ma essere in cammino verso il tutto. È la pace dell’anima che ha trovato il suo centro. È il cuore che riposa in Dio, dopo averlo a lungo cercato.

In un mondo segnato dalla precarietà, dalla sfiducia, dall’ansia di controllo, il messaggio agostiniano risuona come una parola controcorrente. La felicità non è un diritto automatico, né un prodotto da acquistare. È una vocazione, una chiamata, una grazia. Ma proprio per questo, è accessibile a tutti: non solo ai forti, ai ricchi, agli intelligenti. È per chi ha il cuore aperto, per chi cerca, per chi spera. Ecco la proposta di Agostino: una felicità inquieta, fatta di domanda e di ascolto, di desiderio e di attesa. Una felicità che non fugge dalla realtà, ma che si lascia convertire da essa. Che sa vedere nella misura del cuore, nella bellezza dell’ordine, nella verità dell’amore, un riflesso della pienezza futura. Non si tratta di rifugiarsi in un altro mondo, ma di leggere il mondo con occhi nuovi. E di capire che la felicità, se è vera, non si consuma nel tempo, ma si compie nell’eterno.

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