Sono la culla e il sepolcro delle stelle, il principio e la fine, fiato primordiale dell’universo stesso
Siracide 43, 1-2: «Orgoglio dei cieli è il limpido firmamento, spettacolo celeste in una visione di gloria! Il sole mentre appare nel suo sorgere proclama: “Che meraviglia è l’opera dell’Altissimo!”». Ci sono oggetti nel cielo vaghi, incerti, come impronte lasciate dal tempo in un vetro appannato. Un corpo diffuso, informe, come una macchia di latte rovesciata sul velluto nero del cielo, sospesa come sbavatura nell’inchiostro del firmamento. Almeno ad occhio nudo o con un telescopio. Sono le nebulose. Nome antico, che viene dal latino nebula, nebbia. Non sono rare. Anzi. Ce ne sono a migliaia. Sfumature di gas, tracce di polvere. Macchie che si rivelano con l’occhio di una macchina fotografica capolavori colorati di arte astratta. Gigantesche. Alcune misurano decine di anni luce. Le nebulose sono la culla e il sepolcro delle stelle, dunque il principio e la fine, il fiato primordiale dell’universo stesso, composte di idrogeno, elio e polveri interstellari, con temperature che variano dai 10 kelvin nelle nubi molecolari fredde fino ai 10.000 kelvin nelle regioni di emissione.
Con una densità che farebbe ridere qualsiasi fisico terrestre, perché dove a noi servono miliardi di miliardi di particelle per riempire un centimetro cubo d’aria, lì bastano cento o forse mille atomi sparpagliati per dare origine a quei colori che sembrano usciti da un sogno di Hieronymus Bosch, verde smeraldo per l’ossigeno doppio ionizzato, rosso cupo per l’idrogeno eccitato, blu cobalto per il riflesso sulla polvere finissima. Tutto si mescola come in un lento respiro cosmico, in cui la luce delle stelle vicine ionizza i gas e li fa brillare come fuochi fatui. Ci sono diversi tipi di nebulose. Alcune brillano da sole – si chiamano nebulose a emissione – perché contengono gas ionizzato, eccitato da stelle vicine. Le più comuni sono rosse, per via dell’idrogeno. Altre non emettono luce propria, ma riflettono quella di altre stelle: si chiamano nebulose a riflessione. Di solito appaiono azzurre, perché il blu si diffonde meglio nella polvere. Altre ancora sono nere, invisibili: nebulose oscure, fatte di polvere così fitta che la luce non riesce a passarci.
Una manciata di atomi per costruire un impero, architetture barocche e sorprese cubiste. Guardare una nebulosa è come guardare qualcosa che ci riguarda. Non è poesia. È biologia. Il carbonio che ci compone viene da lì. Il ferro del nostro sangue, anche. Gli atomi non si creano sulla Terra. Si sono formati nelle stelle. E poi sono stati gettati nello spazio. Ogni cosa viva viene da una stella esplosa. Siamo figli delle nebulose. In quella lentezza smisurata l’universo si rinnova. La più famosa, visibile quasi occhio nudo dalle nostre parti, è la Nebulosa di Orione, compare sul far dell’alba alla fine dell’estate e poi in pienezza solo d’inverno. M42 è un fiore gigantesco che non smette di sbocciare, un vivaio di stelle nasciture immerso in vapori rosati e porpora. Le sue cavità sembrano ferite luminose, eppure là dentro cresce la vita, cieca e silenziosa.
Poco più in là, nel medesimo complesso, la Nebulosa Testa di Cavallo, B33, si staglia come una sentinella nera contro il bagliore di IC 434. Non emette luce: la ruba. È il buio stesso che ha preso forma, come un pensiero troppo cupo per essere detto. Il suo profilo – inconfondibile – galleggia nel nulla, testardo, immobile da millenni. La Nebulosa Fiamma, accanto alla cintura di Orione, arde di riflessi dorati. È come se una torcia lontana stesse bruciando dietro a un velo traslucido. Il bagliore non è suo, è riflesso. Eppure finge bene, si comporta da stella, si maschera di fiamme per non scomparire. Più a sud, nel cielo australe, la Nebulosa di Tarantola, NGC 2070, danza come un mostro antico. Non è bella. È violenta. È una ragnatela che si tende e si strappa, dove ogni filamento è una tempesta stellare. Al centro, l’ammasso R136 ospita stelle tra le più massicce mai viste, giganti in rivolta, che spingono il gas come onde nel vento. Là le cose non si formano: esplodono. È caos, è nascita convulsa, è energia senza pace. Vicino al cuore della Via Lattea invece, troviamo la Nebulosa Laguna, che si stende come una distesa d’acqua ferma. Ma è un’illusione. Al suo interno, le stelle giovani si agitano, sconvolgono l’ambiente, scavano tunnel e aprono varchi. Le onde d’urto corrono lente nel gas. Le regioni più dense partoriscono luci. Sembra quieta, e invece è febbrile. Accanto, la Nebulosa Trifida, M20, si divide in tre lobi di colore diverso: rosso, blu, e nero.
Come tre fasi della vita, tre atteggiamenti del cosmo, il dirsi diverso delle nebulose. L’emissione, la riflessione, l’assorbimento. Là, la materia non si contende il dominio, ma convive. La Nebulosa Oscura Barnard 68, un grumo nero nel Sagittario. Non riflette, non emette. È una macchia di nulla che oscura le stelle dietro di sé. Perfettamente opaca. Ma si sa – proprio là dove non si vede nulla, le cose stanno per cominciare. In quel buio si stanno formando stelle. Invisibili. Ancora. Come pensieri non ancora pensati. Infine la Nebulosa Boomerang, a -272°C, è l’oggetto naturale più freddo dell’universo. Più del fondo cosmico. Là il tempo si ritira, il calore sfugge, la luce si piega. È come se qualcosa volesse scomparire, del tutto, ma rimanesse congelato a metà del gesto. È una mano che si tende nell’oscurità e poi si ritrae.
Gli antichi, che guardavano tutto questo senza saperlo, avevano forse intuito, nei loro miti e nei loro terrori, che quelle macchie nel cielo erano vive, o almeno consapevoli, o almeno testimoni di qualcosa di più grande, perché nessun uomo, per quanto scettico, può guardare una nebulosa senza sentirsi per un istante piccolo, e insieme eterno, come se un frammento di quella polvere cosmica fosse ancora dentro di lui, nel sangue, nel respiro, nei sogni. Anche il nostro Sole, circa 4,6 miliardi di anni fa, nacque da una nebulosa simile. Gli scienziati chiamano quel luogo “la nebulosa solare primitiva”. Le sue tracce sopravvivono ancora oggi negli isotopi dei meteoriti e nei modelli computazionali della formazione planetaria. In quel grembo oscuro, il Sole si accese. E intorno a lui, pianeti si condensarono — uno dei quali, la Terra, avrebbe ospitato una coscienza abbastanza ostinata da chiedersi: “Da dove veniamo?”.
Le nebulose, in fondo, non si possono capire. Si possono solo guardare a lungo. In silenzio. Finché non si ha più bisogno di capirle. E così si compie il mistero. Ogni nebulosa è un verbo all’infinito. Essere, divenire, dissolversi. Non parlano a noi, ma di noi. E di Dio. Non ci assomigliano, ma ci contengono. Nel vuoto assoluto del cielo profondo, queste creature di vapore e luce ci costringono a restare in silenzio. E a ricordare che siamo fragili, transitori, e bellissimi. Come loro, ma a differenza di loro questa bellezza straordinaria ci rimanda a Colui che ha salvato la nostra fragile transitorietà consegnandoci l’eternità. Se il cielo è un’opera meravigliosa ancora più meraviglioso è il fatto che in un frammento di quest’opera, nell’umano, Cristo ha scelto di incarnarsi. Affinché la materia di stelle di cui ognuno di noi è fatto potesse sapere, ed è la differenza tra noi ed il cosmo, che siamo amati, di un amore che vince la morte e che la materia umana si dissolve in altra materia celeste. Bellezza e morte, la prossima settimana. Per ora in alto il cuore.
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