Quando un piatto è cucinato da Dio

di Giovanni Cesare Pagazzi da Avvenire Gutenberg 27 giugno 2025

Nel gesto di mangiare e bere freme un Vangelo quotidiano E la fame e la sete confutano ogni tentazione di egocentrismo

«Esistono uomini molto intelligenti che non mangiano per studiare meglio le Sacre Scritture. Esistono uomini ancor più intelligenti che studiano le Sacre Scritture per mangiare meglio». Da un lato, l’arguto detto ebraico considera il cibo qualcosa di mortificabile in vista di un bene superiore, dall’altro lo indica come sublime.

Qualcosa da contenere a fatica e premio che espande la vita. La massima disegna una scala audace: la sommità – lo studio delle Sacre Scritture – è il piolo per salire al gradino più basso.

L’abituale sospetto verso bisogni quali fame e sete li interpreta invece come realtà brute, impeti da governare. Così si rifiuta il vincolo tra l’uomo e la terra, in nome di chissà che idea di trascendenza. Forse si scansa il bisogno a motivo del suo esigente magistero. Fame e sete confutano qualsiasi idea di egocentrismo.

Infatti, affamato e assetato, perfino l’egocentrico deve ammettere l’esistenza di altre cose rispetto a sé: i cibi e le bevande. Senza queste non avrebbe nemmeno la forza di ritenersi l’unico essere al mondo.

Con buona pace di Cartesio, l’inizio non è «penso, dunque sono», ma “ho fame, dunque sono, e circondato da cose buone”. L’ammissione della bontà di cibi e bevande sconfessa la visione amareggiata dell’invidioso, incapace di scorgere il bene al di là dei propri confini. Anch’egli deve riconoscere l’esistenza di qualcosa di buono… almeno buono come il pane. A proposito: la prima distinzione tra buono e cattivo, non si accende nella coscienza, ma sul palato. Per un neonato il bene è ciò che è buono da mangiare e bere, il male è quanto disgusta. Il saggio è tale perché sa assaggiare tutti i sapori del mondo. Assapora anche i piatti salati, aspri e perfino amari.

Anche in questi coglie una sfumatura meritevole di essere gustata. È un uomo di sapere perché sa i sapori. Tutti. È differente dal goloso, in genere fissato su poche frequenze del gusto, come ad esempio il dolce.

Il saggio è un buongustaio: si alimenta con il dolce, l’amaro, il salato, l’acido della vita.

Di fronte a cibo e bevande, fame e sete non necessitano né di guide né di correzioni, come fossero energie allo sbando. Semmai ne ha bisogno l’anima. Infatti, il corpo affamato e assetato si dà da sé regole e limiti severi, realizzando la prima espressione della legge. Fame e sete si impongono al corpo come imperativi cogenti: “Mangia!

Bevi!”. La loro trasgressione ha una sola pena: la morte. Ma al contempo, soddisfatte fame e sete, il corpo dice: “Basta così!”.

Ingordo non è chi dà via libera alla voracità sfrenata del bisogno, ma chi lo offende e violenta costringendo il corpo a mangiare quando non ha più fame, a bere senza sete. I vizi non sono effetti della prepotenza di fame e sete, ma dell’arrogante sopraffazione di esse da parte dell’anima che le distorce e deforma. Perciò, fame e sete, offese, si vendicano. In proposito sant’Agostino afferma che quando l’anima non serve il suo Signore, «è calpestata dal suo servo», cioè il corpo che la rimprovera con asprezza ( Commento al vangelo di Giovanni, XXIII,5). Il bisogno ordina di apprezzare quanto è fuori dal corpo e, nello stesso tempo, comanda: “Basta così!”, insegnando il concetto di “abbastanza”. Apprendendolo, l’umanità sarebbe liberata dall’incubo dell’accumulo di cose, di terra, di risorse. Si affrancherebbe, come per miracolo, dall’avidità che partorisce solo ingiustizie.

Tra le cose che distinguono gli umani da qualsiasi altra forma vivente, compresa la più evoluta, è la cucina. Come ogni altro vivente, uomini e donne si alimentano, procurandosi le sostanze necessarie, ma a differenza di essi – è una differenza sostanziale! –cucinano. In cucina si trasformano le materie prime, accostando, mescolando, cuocendo ingredienti diversissimi, a volte perfino contrastanti. Gli ingredienti devono essere modificati, puliti, misurati, aggiunti, ridotti, affinché ciascuno promuova le caratteristiche degli altri.

La cucina è frutto di uno specifico ambiente culturale. In ogni piatto si trova un piccolo mondo.

Tuttavia, una forchettata della pietanza più tipica ironizza su ogni forma di provincialismo, poiché qualsiasi piatto è un meticciato, un incrocio di popoli, culture ed epoche.

A cucinare s’impara – per imitazione e pratica – grazie alla trasmissione del sapere culinario, compresi arcani segreti da mantenere nella stretta cerchia familiare o professionale. La tradizione del sapere culinario richiede una trasmissione precisa, una ricezione scrupolosa e attenta. Eppure, promuove l’inventiva, il tocco che trasforma la pietanza tradizionale in un piatto di nuovi sapori. Rispettata, la tradizione accende la creatività. Cucinando, gli umani amplificano in modo inimmaginabile per qualsiasi altro vivente l’esperienza del piacere, grazie alla quale il Creatore – con un linguaggio tutto di carne – profetizza alla carne stessa la sua dignità e la sua futura redenzione. Infatti, nel momento del piacere, la carne si sente sollevata dal peso mortale del limite. Perciò il piacere è piacere.

Cucinare esprime anche l’attenzione ai legami. Chi cucina deve considerare quanto piace al proprio ospite, ciò che può mangiare e ciò che deve mangiare. Altrimenti l’intenzione di nutrire, pur buona, risulterà astratta e perfino dannosa. Ma, forse, la gloria del cuoco è somma quando riesce a stuzzicare l’appetito all’inappetente, a chi non ha fame, ha smesso di averla, o si è imposto di non sentirla.

Qualora riuscisse, risusciterebbe un morto.

Quanto è denso il gesto di mangiare e bere. Pertanto è bene praticarlo con l’aiuto delle Sacre Scritture. Vi freme un Vangelo quotidiano, come quel pane chiesto ogni giorno.

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